L’ORDINE SACRO: IL PRIMATO DEL SACRAMENTO SUL DIRITTO

DON ENRICO FINOTTI

Il primato del sacramento sul diritto nell’Episcopato

Il primato e la centralità della liturgia è determinante in un modo del tutto straordinario nell’impostazione della dottrina sull’Ordine sacro contenuta nel cap. III della Lumen gentium.

«Il sacerdozio è non semplicemente ‘ufficio’, ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola ‘sacerdozio’» (Benedetto XVI, Omelia nella solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, in OR, 12 giugno 2010, p. 4).

Si trattava di stabilire con maggior chiarezza la dottrina sulla sacramentalità dell’episcopato.

Tale dottrina rappresenta il cardine portante da cui sarebbero derivate delle conseguenze teologiche di prim’ordine:

  • l’origine sacramentale del triplice munus nei vescovi;
  • il fondamento ontologico della collegialità episcopale;
  • e la giustificazione sul piano ontologico della Chiesa particolare.

Ebbene tutto parte dalla definizione relativa alla sacramentalità dell’episcopato.

Ed ecco che venne superata la distinzione medioevale tra potere di ordine e potere di giurisdizione, secondo la quale, mentre il vescovo riceveva il sacerdozio dall’ordinazione sacramentale, era tuttavia investito dal Papa del potere di giurisdizione, che implicava i due specifici uffici di magistero e di governo nella Chiesa.

La visione giuridica dell’episcopato si trovava incapace di collegare l’intero triplice ufficio episcopale all’unica sua fonte, il sacramento dell’Ordine sacro, attingendo da esso il solo munus santificandi, ma derivando da altra fonte, di natura giuridica gli altri due munus, docendi e gubernandi.

La scelta del Vaticano II unì quindi la totalità del ministero episcopale nel sacramento, che dichiara come la liturgia stia a fondamento del ministero gerarchico nella Chiesa.

Certo dovrà seguire la determinazione giuridica per organizzare con ordine ed efficacia pastorale l’Ordo episcoporum – ciò è richiesto dalla natura stessa dell’essere un Ordo, ossia un organismo composito – e questa la eserciterà il Papa, ma tale determinazione sarà successiva e con semplice valore giuridico e non ontologico-fondativo, quale invece è il sacramento.

In questa prospettiva sia l’esercizio del magistero, come quello del governo non sono ricevuti dal Sommo Pontefice, ossia non possono essere considerati una creazione del diritto pontificio.

In tal senso i vescovi sarebbero dei vicari del Papa e non avrebbero autorità propria fondata sul diritto divino.

I vescovi sono invece costituiti tali e in tutta l’estensione del loro triplice ministero dal sacramento dell’Ordine.

«può essere utile una breve osservazione sulla parola ‘gerarchia’, che è la designazione tradizionale della struttura di autorità sacramentale nella Chiesa, ordinata secondo i tre livelli del Sacramento dell’Ordine: episcopato, presbiterato, diaconato… Generalmente, si dice che il significato della parola gerarchia sarebbe ‘sacro dominio’, ma il vero significato non è questo, è ‘sacra origine’, cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha origine nel sacro, nel Sacramento; sottomette quindi la persona alla vocazione, al mistero di Cristo; fa del singolo un servitore di Cristo e solo in quanto servo di Cristo questi può governare, guidare per Cristo e con Cristo. Perciò chi entra nel sacro Ordine del Sacramento, la ‘gerarchia’, non è un autocrate, ma entra in un legame nuovo di obbedienza a Cristo: è legato a Lui in comunione con gli altri membri del sacro Ordine, del Sacerdozio»( BENEDETTO XVI, Udienza del mercoledì, 26 maggio 2010, in OR, 27 maggio 2010, p. 1).

Sono stabiliti nella Chiesa dallo Spirito Santo per via sacramentale e non per la mediazione del Papa.

Anche il munus sanctificandi dei vescovi non è semplicemente quello comune ai presbiteri, ma essi sono costituiti sommi sacerdoti in modo che da un lato dal loro ministero fluisca la trasmissione dell’Ordine ai presbiteri, dall’altro essi rimangano in permanenza il fondamento che garantisce nella Chiesa la celebrazione legittima dell’eucaristia e dei sacramenti.

Vi è quindi nel munus sanctificandi dei Vescovi quel plus che li fa essere canali e cardini del munus sanctificandi comunicato da Cristo per via sacramentale ai presbiteri. Si supera in tal modo quella visione che, non valutando a sufficienza l’eminenza del sacerdozio nel vescovo rispetto al presbitero, portò alla perplessità teologica in ordine alla stessa sacramentalità dell’episcopato.

In questa luce si comprende l’eminenza della Messa stazionale del Vescovo, circondato dai suoi ministri e da tutto il popolo, rispetto alla Messa del presbitero.

Il mistero che si realizza è identico, ma il ministero che opera, opera in maniera eminente nel vescovo, relativa a quest’ultimo nel presbitero (SC 41-42).

«Dalle lettere Ignaziane non meno che da tutti gli scritti dei primi secoli, è facile rilevare come il vincolo unitario nella Chiesa è costituito dal vescovo, non solamente come autorità, ma altresì e soprattutto come liturgo, cioè esecutore ufficiale degli atti liturgici nelle assemblee del culto e in particolare del sacrificio eucaristico. S. Giustino, nella prima descrizione della Messa che presenta la storia liturgica, ci mostra attorno all’altare del vescovo celebrante col suo clero, e con tutti i membri della sua Comunità, venuti da ogni parte: omnes sive urbes, sive agros incolentes. Nelle mani del Vescovo sta, colla celebrazione dell’Eucaristia, l’amministrazione in via normale di tutti i sacramenti. I preti concelebrano con lui, ed officiano separatamente, ma per suo ordine e per sua delegazione. Nella città episcopale non c’è che una sola Chiesa, una sola cattedra, un solo altare, un solo sacrificio, quello del vescovo. Con questa disciplina si spiega l’origine della Messa stazionale, e, in misura più ridotta, il carattere peculiare che conserva tuttora la Messa del Parroco, rappresentante del Vescovo nelle parrocchie lontane» (M. Righetti, Storia liturgica, IV, pp. 424-425).

L’unione dei tria munera sorgenti e alimentati dall’unica fonte sacramentale, ovverosia l’Ordine, dimostra nuovamente la centralità e il primato della liturgia (sacramento) nell’intero triplice ministero del vescovo.

La liturgia sta dunque a fondamento non solo del munus sanctificandi, ma anche del munus docendi e del munus gubernandi.

È dalla grazia sacramentale dell’Ordine che il vescovo annunzia il Vangelo con l’autorità di Cristo, presiede il sacrificio come Sommo sacerdote e governa con la stessa potestà del Signore il popolo a lui affidato.

Il diritto certamente dovrà intervenire e accompagnare sempre tutta l’attività ministeriale del vescovo.

Infatti sarà il diritto, che nel Sommo Pontefice ha la sua più alta espressione, che dovrà stabilire le condizioni di validità del magistero episcopale, le condizioni di legittimità della celebrazione dei sacramenti e le condizioni di validità degli atti di governo.

Questo è intrinsecamente necessario per la natura corporativa del collegio episcopale nel quale ogni vescovo deve agire nella comunione con l’intero Ordo episcoporum per essere insieme e singolarmente l’unica sentenza dottrinale di Cristo, l’unica sua azione santificante e l’unico suo governo pastorale.

 

Il primato del sacramento sul diritto nel Collegio episcopale

Un secondo importante aspetto che consegue dalla sacramentalità dell’intero triplice munus episcopale è il fondamento sacramentale della collegialità episcopale.

Nell’impostazione giuridica del potere di giurisdizione, inteso in senso extrasacramentale, si poteva ritenere che il Collegio episcopale fosse una creazione del diritto pontificio.

«unica e vera radice della collegialità appariva la giurisdizione episcopale sopra una determinata diocesi. Perciò la collegialità era completamente staccata dalla realtà sacramentale e trasferita nel piano della sola realtà giuridica; poiché nell’attuale prassi della Chiesa latina la giurisdizione viene difatti assegnata ai vescovi dal papa, era naturale la conclusione, di considerare, in definitiva, il collegio dei vescovi come una pura creazione del diritto pontificio» (J. Ratzinger, La collegialità episcopale dal punto di vista teologico, in G. Baraúna, ed., La Chiesa del Vaticano II, p. 738).

Infatti era costituito da quei vescovi che erano investiti di reale giurisdizione, i vescovi residenziali, ed escludeva i vescovi titolari.

Era la giurisdizione la tessera di appartenenza al Collegio episcopale e la conditio sine qua non per la partecipazione con voto deliberativo nel Concilio Ecumenico.

I vescovi erano chiamati nel Collegio non dal semplice essere vescovi, divenuti tali nella consacrazione, ma per l’investitura giuridica ricevuta dal Papa.

La loro appartenenza al Collegio non era fondata sul sacramento, ma sul diritto.

Ciò risulta evidente nella normativa del precedente Codice quando stabilisce chi e a quale titolo abbia diritto di partecipare con voto deliberativo a un Concilio Ecumenico[1].

Con l’ecclesiologia sacramentale i vescovi appartengono immediatamente al Collegio per la pienezza del sacramento dell’Ordine ricevuto.

Certo, il diritto dovrà stabilire i termini dell’esercizio del loro ministero all’interno del Collegio, ma i vescovi sono creati membri del collegio apostolico mediante la consacrazione.

«è inequivocabilmente chiaro, che il collegio dei vescovi non è semplicemente una creazione del papa, ma trae la sua origine da un atto sacramentale e rappresenta così un dato di fatto insopprimibile della struttura della Chiesa, che nasce dalla natura stessa di questa, stabilita dal Signore – anche se il concreto esercizio della collegialità ha poi bisogno di più precise determinazioni da parte del diritto positivo» (J. Ratzinger, «La collegialità episcopale del punto di vista teologico», in G. Baraúna, ed., La Chiesa del Vaticano II, p. 739).

La collegialità episcopale allora ha essa pure un fondamento liturgico e la liturgia sta a fondamento dell’Ordo episcoporum in quanto tale.

Mediante il sacramento è Cristo stesso che crea con un intervento soprannaturale i membri e il loro legame ontologico che li fa fratelli nell’essenza soprannaturale che scaturisce dal carattere indelebile dell’Ordine episcopale.

Il Collegio dei Vescovi, il cui capo è il Sommo Pontefice e i cui membri sono i Vescovi in forza della consacrazione sacramentale e della comunione gerarchica con il capo e con i membri del Collegio, e nel quale permane perennemente il corpo apostolico, insieme con il suo capo e mai senza il suo capo, è pure soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale (CDC 1983 – Can. 336).

Dall’impostazione sacramentale della teologia dell’episcopato scaturisce con coerenza e chiarezza la determinazione giuridica che ciascun Vescovo, in quanto tale, ha il diritto e il dovere di partecipare al Concilio Ecumenico con voto deliberativo:

Tutti e soli i Vescovi che sono membri del Collegio dei Vescovi hanno il diritto e il dovere di partecipare al Concilio Ecumenico con voto deliberativo (CDC 1983 – Can. 339 – § 1).

Il numero crescente di vescovi diocesani, dei coadiutori e degli ausiliari che, a norma del can. 401 del CIC, hanno rinunziato all’ufficio, costituisce ormai un evento di grande importanza nella vita della Chiesa. Essi continuano, anche se emeriti, ad essere membri del collegio dei vescovi “in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica con il capo e con i membri del collegio” (can. 336). Hanno perciò il diritto di intervenire al concilio ecumenico con voto deliberativo (can. 339) e di esercitare la potestà collegiale entro i termini di legge (can. 337§2) (Congregazione dei Vescovi, Normae In vita ecclesiae, nn. 167-168, in EnchVat, XI, n. 143).

 

[1] CDC 1917 – Can. 223: § 1. Vocantur ad Concilium in eoque ius habent suffragi deliberativi: 1° S.R.E. Cardinales, etsi non Episcopi; 2°. Patriarchae, Primates, Archiepiscopi, Episcopi residentiales, etiam nondum consacrati; 3°. Abbates vel Prelati nullius; 4°. Abbas Primas, Abbates Superiores Congregationum monasticarum, ac supremi Moderatores religionum clericalium exemptarum, non autem aliarum religionum, nisi aliud convocationis decretum fuerat. § 2. Etiam Episcopi titulares, vocati ad Concilium, suffragium obtinent deliberativum, nisi aliud in convocatione espresse caveatur. § 3. Teologi ac sacrorum canonum periti, ad Concilium forte invitati, suffragium non habent, nisi consultivum. è del tutto evidente come in questo Canone il voto deliberativo sia conferito in base alla giurisdizione, anche se la consacrazione sacramentale non vi fosse, come taluni cardinali (Cardinales, etsi non Episcopi) o non fosse ancora intervenuta (Episcopi residentiales, etiam nondum consacrati). Inoltre per i Vescovi titolari il voto deliberativo è una concessione, che può anche essere tolta (nisi aliud espresse caveatur).

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