Riflessione sulle solennità natalizie – ET VERBUM CARO FACTUM EST ET HABITABIT IN NOBIS (prima parte)

Madonna col Bambino detta Madonna della loggia. Autore. Sandro Botticelli (Firenze 1445-1510). Data. 1466-1467 circa. Museo. Gli Uffizi. Collezione. Pittura.

don Enrico Finotti

Prima parte della trasmissione a Radio Maria  del 12 gennaio 2020

Premessa

Con la festa del Battesimo del Signore si conclude il tempo di Natale.

Le varie solennità natalizie sono appena passate con la ricchezza simbolica dei loro riti.

Conviene allora riflettere ancora sui misteri celebrati e riconsiderare con maggior attenzione ai contenuti sottesi alla ricchezza di questi venerandi e antichi riti.

Due quindi sono le prospettive da cui guardare ai santi misteri: la catechesi precedente alla loro celebrazione, che prepara le menti e gli animi ad una accoglienza consapevole e ben formata dei riti natalizi e la catechesi successiva alla loro celebrazione, che offre elementi ancor più abbondanti di riflessione e quella maggior intelligenza, che deriva dall’esperienza viva e diretta dei riti celebrati nella Chiesa. 

Questa riflessione, postuma alla celebrazione, si chiama, secondo la tradizione liturgica classica, mistagogia. Si tratta di approfondire il mistero dopo averlo celebrato, ripensando all’impressione che la celebrazione liturgica ha lasciato nelle nostre menti e nei nostri cuori e alimentati da quella grazia che l’avvenuta celebrazione dei santi misteri ha prodotto in noi.

Il criterio mistagogico, infatti, ispira la posizione dell’omelia nella Messa: dopo l’annunzio diretto della Parola di Dio, che illumina con luce immediata la mente dei fedeli, si interviene con la sua spiegazione, che tuttavia serve a fissare e precisare quel messaggio che già da se stesso ha la capacità di produrre, per la virtù dello Spirito Santo, il suo frutto spirituale nell’anima dei credenti. Al contempo l’omelia predispone alla successiva celebrazione sacramentale, alludendo ai simboli, ai gesti e alle preci, che rivestono il mistero della grazia, che la liturgia celebra sub specie sacramenti. Si nota allora il duplice valore dell’omelia, che da un lato segue all’azione sacra e dall’altro la prepara.

I due tempi che rispettivamente precedono e seguono la grande solennità si ispirano a questa metodologia: il tempo di Avvento istruisce le menti dei fedeli a celebrare con frutto i misteri natalizi, il tempo di Natale riprende i medesimi misteri introducendo i fedeli nei recessi più profondi dei simboli e dei riti sacri, sostenuti da quella grazia che essi hanno ricevuto nelle avvenute celebrazioni liturgiche.

Modello ideale di questo procedimento catechetico/mistagogico é il ciclo pasquale: nella quaresima vi é la catechesi preparatoria e nel tempo pasquale quella mistagogica.

 

  1. Il dogma dell’Incarnazione

Il complesso delle solennità natalizie concorre a celebrare un unico fondamentale mistero: l’Incarnazione del Verbo eterno. Le varie feste evidenziano certamente aspetti diversi, ma in tutte vi é la contemplazione dell’unico grande evento dell’Incarnazione.

Ebbene tale mistero é contenuto nell’asserto centrale del Prologo del vangelo di san Giovanni, quando si dice: Et Verbum caro factum est et habitabit in nobis.

Possiamo osservare che questa frase rappresenta il ritornello (leitmotiv) costante dell’intera liturgia natalizia. La Chiesa lo ripete continuamente in ogni snodo dell’Ufficio divino e lo pone su candelabro più alto del complesso liturgico natalizio: il canto del Prologo nella terza Messa di Natale (Missa in die).

Ed é intorno a questo versetto strategico, per così dire, che vogliamo impostare la nostra riflessione e considerare come da esso scaturiscano, sia i contenuti del dogma della fede, sia la tipologia singolare dei riti della liturgia natalizia.

Per comprendere l’importanza assoluta e primaria dell’Incarnazione del Verbo basterebbero queste illuminate parole del card. Giuseppe Siri:

«L’unico fatto vero, che fa eccezione su tutta la storia umana, l’unico, che la domina e la dominerà, é  il fatto dell’Incarnazione del Figlio di Dio, che cioè il Verbo si sia fatto uomo. Gli altri fatti rientrano nei corsi e nei ricorsi soliti della storia … L’unico fatto vero é questo».

«E’ il momento più grande di tutta la storia umana, perché il centro dello storia umana sta a Nazaret, dove è avvenuta l’Incarnazione del Figlio di Dio. Il rimanente, grandissimo, è conseguenza e applicazione di questo primo gesto divino ed umano insieme»[1].

Per conservare nella sua purezza e integrità la dottrina sull’Incarnazione del Verbo é necessario accogliere e rispettare i termini teologici che la Chiesa ha elaborato nei secoli sotto la mozione infallibile dello Spirito Santo. Se si altera il linguaggio si smarrisce inevitabilmente il significato vero e pieno del mistero contenuto. I termini precisi consacrati dal magistero della Chiesa sono dunque necessari per capire e per trasmettere il dogma stesso della fede rivelata. Tra contenuto ed espressione linguistica del medesimo vi é un rapporto delicatissimo che implica una fedeltà indissolubile, soprattutto riguardo a quei termini che la Chiesa ha elaborato con analisi profonde e ricerche secolari e che ormai fanno parte della formulazione stessa dei grandi dogmi della fede.

Il dogma dell’Incarnazione, quindi, esige la recezione di termini tecnici ormai consacrati definitivamente dai primi quattro Concili ecumenici (Nicea – 325; Costantinopoli – 381; Efeso – 431; Calcedonia – 451), che fanno parte del tessuto stesso col quale é compreso e manifestato il mistero dell’Incarnazione.

Ed ecco il mistero secondo la definizione dogmatica del Concilio di Calcedonia (451), che conclude sostanzialmente la definizione del dogma cristologico:

«Seguendo i santi padri, all’unanimità noi insegnamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, (composto) di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato (Eb 4, 15), generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo l’umanità»[2].

 L’antico Credo detto ‘atanasiano’ proclama con mirabile sintesi:

La retta fede vuole, infatti, che crediamo e confessiamo che il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, é Dio e uomo.

E’ Dio perché generato dalla sostanza del Padre fin dall’eternità; é uomo, perché nato nel tempo dalla sostanza della Madre (Deus est ex sub stantia Patris ante saecula genitus; et homo est ex sub stantia Matris in sacecula natus).

Uguale al Padre nella divinità, inferiore al Padre nell’umanità.

E tuttavia, benché sia Dio e uomo, non é duplice ma é un solo Cristo.

Totalmente uno, non per confusione di sostanze, ma per l’unità della persona.

Si parla allora di un’unica Persona divina, la seconda persona della santissima Trinità, e di due Nature, integre e distinte: la natura divina e la natura umana.

«Ma ora noi… predichiamo (ai fedeli), riassumendolo molto brevemente, che essi devono riconoscere che le indivisibili peculiarità delle due nature nell’unica persona di Cristo, Figlio di Dio, come permangono indivise e inseparabili, così in confuse e immutabili, l’una della divinità, l’altra dell’uomo, l’una nella quale egli è stato generato da Dio Padre, l’altra nella quale egli è stato generato da Maria Vergine. Ambedue le generazioni sono complete, ambedue perfette; egli non ha nulla di meno dalla divinità, non prende nulla di imperfetto dall’umanità; non è diviso per la duplicità delle nature, non duplicato nella persona, ma, come Dio completo e uomo completo senza alcun peccato, è nella singolarità della persona l’unico Cristo.

Sussistendo come unico dunque nelle due nature, rifulge dei segni della divinità e soggiace alle sofferenze dell’umanità. Non fu infatti generato uno dal Padre, uno dalla madre, sebbene tuttavia sia nato diversamente dal Padre che dalla madre: tuttavia egli nelle due forme di natura non è diviso, ma unico e medesimo, Figlio sia di Dio che dell’uomo […]

Perciò se qualcuno a Gesù Cristo, Figlio di Dio, che nacque dal seno della Vergine Maria o toglie dalla divinità o sottrae dall’umanità qualcosa, eccetto solo la legge del peccato, e non crede sinceramente che egli esiste come vero Dio e perfetto uomo in una sola persona, sia colpito dall’anatema»[3].

Occorre inoltre recepire quella che la teologia chiama communicatio idiomatum[4], ossia il fatto che le azioni compiute dal Figlio di Dio secondo la sua natura divina e quelle compiute secondo la natura umana sono azioni proprie dell’unica Persona divina del Verbo incarnato in modo che ciò che é divino è compiuto dal Dio-Uomo e ciò che é umano é compiuto dall’Uomo-Dio.

Possiamo così affermare che veramente Dio si é incarnato, ha sofferto ed é morto e al contempo che veramente l’Uomo é risorto, é salito al cielo e siede alla destra del Padre.

«Egli stesso vive, sebbene muoia,e muore, sebbene viva; egli stesso è non soggetto a soffrire pur soffrendo, non soggiacendo alla sofferenza, né soccombendo (ad essa) nella divinità, né si sottrae alla sofferenza nell’umanità; in base alla natura della divinità ha di non poter morire, in base alla sostanza dell’umanità ha sia di non voler morire come di poter morire; in base all’una condizione è ritenuto immortale, in base all’altra, quella dei mortali, si dissolve; ha nell’eterna volontà della divinità di usare dell’uomo assunto; ha nella volontà dell’uomo assunto che la volontà umana sia soggetta a Dio. Onde egli stesso dice al Padre: ‘Padre, non avvenga la mia, ma la tua volontà (Lc 22, 42), e mostra così che l’una è la volontà di Dio, in forza della quale l’uomo è stato assunto, l’altra quella dell’uomo, con la quale si deve obbedire a Dio»[5].

«E’ un unico e un solo Dio, figlio di Dio in due nature, ma nella singolarità di una sola persona; impassibile e immortale nella divinità, tuttavia patì per noi e per la nostra salvezza nell’umanità, con vera passione della carne, e fu sepolto, e risuscitò dai morti il terzo giorno con vera risurrezione della carne; e a conferma di questa mangiò con i discepoli, non per bisogno di cibo, ma come atto di volontà e di potenza; il quarantesimo giorno dopo la risurrezione ascese al cielo con la carne, nella quale era risorto, e con l’anima e siede ora alla destra del Padre; di là il decimo giorno mandò lo Spirito Santo e di là, così come ascese, di nuovo verrà per giudicare i vivi e i morti, e darà a ciascuno secondo le sue opere»[6].

Il mistero dell’Incarnazione é protetto e rettamente compreso dai dogmi mariani della divina Maternità di Maria e della sua perpetua Verginità

 

Come cantare le tue lodi, santa Vergine Maria?

Oggi in te si compie la parola dei Profeti.

Tu, vergine hai concepito senza seme,

vergine hai partorito senza dolore,

e, inviolata, rimani vergine per sempre.

Gloria a te, Madre di Dio!

 

Gaude, Maria Virgo,

cunctas haereses sola interemisti.

Quae Gabrielis Archangeli dictis credidisti.

Dum Virgo Deum et hominem genuisti

et post partum, Virgo inviolata permansisti.

Dei Genitrix, intercede pro nobis [7].

 

Dopo queste considerazioni si vede quanto sia denso il versetto del prologo di san Giovanni Et Verbum caro factum est et habitabit in nobis, che contiene in nuce tutta la sostanza e la complessità del mistero dell’Incarnazione e come esso sia la fonte inesauribile da cui scaturisce la perenne e secolare riflessione teologica della Chiesa.

 

  1. Le tre Messe del Natale

 

Il versetto 14 del Prologo Et Verbum caro factum est et habitavit in nobis genera non solo la teologia relativa all’Incarnazione (come abbiamo visto sopra), ma anche la liturgia che celebra il mistero nella solennità del Natale.

Consideriamo innanzitutto lo sviluppo rituale e il contenuto misterico delle tre Messe del santo Natale. E’ un’antica tradizione che a Natale ogni sacerdote ha la facoltà di celebrare tre volte il divin Sacrificio. Tale uso ha radici storiche nella tradizione liturgica natalizia romana.

Nell’Urbe il Papa con i suoi ministri e l’intero popolo romano si recava in luoghi diversi per celebrare in ore diverse il mistero del Natale del Signore, considerato sotto aspetti diversi.

Ed ecco che nel cuore della notte santa (a mezzanotte) il Papa celebrava la prima Messa di Natale ad praesepe, ossia nella basilica di santa Maria Maggiore, detta appunto santcta Maria ad praesepe, in quanto sotto l’altare maggiore custodiva le insigni reliquie della mangiatoia della grotta di Betlemme. Celebrando in prossimità di questa reliquia tanto venerata, si voleva imitare ciò che avveniva in Betlemme, dove i cristiani potevano veramente celebrare nella santa grotta. Era una statio notturna, che realizzava in qualche modo ciò che canta il salmo: Nel cuore della notte mi alzo a renderti lode (Sal 118, 62), oppure si voleva rivivere ciò che si legge nel libro del Siracide: Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale’ (Sap 18, 14-15). E’ la Missa in nocte (Messa della notte).

Verso l’alba il corteo papale raggiungeva le pendici del colle Palatino, dove stava ancora il palazzo imperiale dell’imperatore bizantino, e nella basilica di santa Anastasia celebrava una seconda Messa in onore della santa, che in quel giorno aveva il suo dies natalis, in omaggio all’autorità imperiale. E’ la seconda Messa natalizia, che sarà chiamata Missa in aurora (Messa dell’aurora).

Infine il Papa raggiungeva nel cuore del mattino la basilica vaticana, dove celebrava con la più grande solennità il Natale del Signore. E’ la Missa in die (Messa del giorno).

Se storicamente queste furono le cause dell’insorgere delle tre Messe natalizie, la diffusione di tale costume in tutto l’orbe cristiano, ha portato a conferire ad esse un significato mistico e ad interpretarle come una legittima drammatizzazione dell’evento, come ci é descritto nei santi Vangeli. Per di più il criterio della drammatizzazione liturgica già veniva spontaneo sui luoghi santi della Palestina, dove i cristiani potevano realmente celebrare sui siti storici dove si compirono gli eventi salvifici. In questa singolare prospettiva le tre Messe di Natale intendevano celebrare fasi successive del racconto evangelico, leggendo le varie pericopi evangeliche in relazione ai luoghi o alle ore diverse della celebrazione.

Ed é in questo modo che nella liturgia vigente:

  • nella Messa in nocte si legge il vangelo della nascita del Signore con l’annunzio e il canto adorante degli Angeli;
  • nella Messa in aurora si legge il vangelo della visita e dell’adorazione dei pastori, avvenuta appunto dopo che gli angeli si sono ritirati e verso il mattino;
  • nella Messa in die si canta il vangelo del Prologo di san Giovanni, che contempla il mistero del Verbo incarnato nella sublime luce del mistero ineffabile.

La Chiesa passa così da un uso storico, proprio di Roma, ad una liturgia drammatizzata, secondo l’uso di Betlemme, che poteva conferire al Natale una ricchezza simbolica molto elevata e pastoralmente incisiva.

Possiamo allora intendere la liturgia natalizia come un itinerario stazionale, che mobilita idealmente il popolo cristiano in un pellegrinaggio in tre successive statio: dalla mezzanotte santa, alla mistica aurora, al vertice luminoso nel fulgido giorno del Natale.

In ogni statio la Chiesa si incontra in comunione spirituale con gli stessi protagonisti dei vangeli, che guidano il cammino verso le profondità del mistero: nella notte santa la Chiesa adora il Verbo incarnato col canto degli angeli: Gloria in excelsis Deo; all’aurora si prostra davanti al Bambino divino insieme agli umili pastori; in pieno giorno alza lo sguardo e guidata dall’aquila mistica, l’evangelista Giovanni, fissa il ‘Sole divino’ fino alle altezze dei cieli, dai quali é disceso il Verbo eterno del Padre. Ed ecco che gli Angeli, i pastori e il grande Teologo, attualizzano nel mistero dei riti liturgici il loro ruolo di guida dei fratelli nella manifestazione sempre più piena del ineffabile dono celeste.

Come si può costatare il versetto Et Verbum caro factum est et habitabit in nobis, cantato nel Prologo di san Giovanni nella terza Missa in die, rappresenta il vertice e il compimento dell’itinerario natalizio delle tre Messe, tappe di un cammino ideale, in ore successive, che dall’umiltà della carne, contemplata nel presepe nella notte santa, giunge all’estasi del mistero mirato, per così dire, nelle altezza celesti e nel fulgore della gloria divina.

I due termini essenziali e indivisibili del mistero dell’Incarnazione – vero Dio e vero Uomo – sono adeguatamente manifestati dagli eventi natalizi: l’umiltà del Bambino nel presepio e l’adorazione degli umili pastori attestano la verità della natura umana, il canto degli Angeli e il Prologo di san Giovanni attestano la verità della natura divina.

Ebbene questo intreccio mirabile, indissolubile e ben distinto, nella Persona divina dell’Dio-Uomo, é già tutto contenuto in nuce nel versetto: Et Verbum caro factum est et habitabit in nobis.

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[1] Card. G. SIRI, Omelie per l’anno liturgico, Fede&Cultura, 2008, p. 209 e p.287.

[2] Denzinger n. 301: Simbolo del Concilio di Calcedonia (4° ecum.), anno 451.

[3] Denzinger n. 564: 14° Sinodo di Toledo, 14-20 novembre 684.

[4] Communicatio idiomatum è una locuzione latina che significa “comunicazione degli idiomi”. Il termine è usato nel Cristianesimo come espressione tecnica nell’ambito della teologia dell’incarnazione. Sta a significare che le proprietà del Verbo possono essere attribuite all’uomo Gesù Cristo.

[5] Denzinger n. 564: 14° Sinodo di Toledo, 14-20 novembre 684.

[6] Denzinger n. 681: Lettera di papa Leone IX a Pietro, patriarca d’Antiocchia, anno 1053.

[7] MR, 1962, Missa sancta Maria in sabbato, Tratto.

 

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