LE “QUATTRO TEMPORA”

DON ENRICO FINOTTI

Per Tempora si intendono i «quattro tempi» o le «quattro stagioni», corrispondenti alle quattro parti cosmiche che formano l’anno solare in rapporto ai due «solstizi» e ai due «equinozi».

Ed ecco che la Chiesa in prossimità con questi eventi cosmici celebra le Tempora di primavera (equinozio), Tempora d’estate (solstizio), Tempora di autunno (equinozio) e Tempora d’inverno (solstizio).

Le quattro Tempora hanno avuto un’incidenza considerevole nell’Anno liturgico romano e ne hanno sempre costituito una sua peculiarità a differenza della liturgia orientale che non le ha mai assunte. La loro celebrazione fu costante nei secoli, dalle origini fino alla recente riforma liturgica del Vaticano II, quando furono tolte dal Calendario liturgico universale e affidate alla discrezione delle varie Conferenze Episcopali.

La storia delle Tempora

Ad uno sguardo d’insieme sulla struttura dell’Anno liturgico precedente (1962) si noterà con facilità la ricchezza e la corposità della liturgia delle quattro Tempora, rispetto alla settimana ordinaria ed emergendo con determinazione anche nei maggiori tempi sacri di Quaresima e soprattutto di Avvento. Si pensi soltanto alle due letture del mercoledì e alle sei del sabato, oltre che al digiuno prescritto nei tre giorni di mercoledì, venerdì e sabato della settimana delle Tempora.

Allusioni significative alle Tempora si trovano già nella sacra Scrittura quando si parla del «digiuno del quarto, quinto, settimo e decimo mese» (Zc 8,19). Il papa san Leone Magno nelle sue omelie ne accenna chiaramente. Anche costumi pagani, quali le feriae messis, feriae vendemiales e feriae sementinae, possono in qualche modo aver originato o almeno offerto elementi alla ritualità delle Tempora cristiane. Tuttavia sembra che l’origine più accreditata delle Tempora stia nell’organizzazione dell’antica settimana liturgica, che, fin dalla tradizione apostolica, consacrava il mercoledì, il venerdì e il sabato col digiuno e con un servizio eucologico, che nel sabato si prolungava nella veglia notturna, conclusa dall’Eucaristia domenicale. Da questi giorni, detti «stazionali», e soprattutto dalla veglia domenicale nasce e si sviluppa la Chiesa dei primissimi secoli. L’austerità di una tale disciplina, esercitata normalmente dall’antica Chiesa, a poco a poco venne meno, tuttavia si conservò almeno nelle quattro settimane delle Tempora, che hanno portato fino a noi l’impronta dell’antica settimana liturgica romana[1].

Quando ancora l’Anno liturgico doveva nascere o almeno i tempi sacri non erano ancora ben determinati, si poteva riconoscere con più evidenza l’importanza delle Tempora che, ad immagine della settimana pasquale, richiamavano il popolo cristiano alla preghiera e alla penitenza nei quattro snodi dell’anno solare, all’inizio delle stagioni, unendo insieme la lode al Creatore, la riconoscenza per i frutti della terra e la necessaria purificazione per ottenere grazia e misericordia.

Uno sviluppo alquanto significativo avvenne quando le Tempora, legate inizialmente al ritmo cosmico dell’anno solare e al cambio stagionale, assunsero i contenuti propri dei tempi liturgici in cui cadevano, subendo l’influsso delle grandi feste cristiane preparate da tempi sacri sempre più elaborati e caratterizzati. E’ così che soprattutto le tempora d’inverno divennero una singolare e intensa celebrazione dell’Avvento con una spiccata colorazione mariana. L’antico tema stagionale cede il posto al mistero liturgico dell’attesa del Signore e della sua stessa Incarnazione, come é attestato dalla Missa aurea del mercoledì delle Tempora di dicembre in cui si proclama il vangelo dell’Annunciazione, completato da quello della Visitazione nel successivo venerdì. La liturgia dell’Avvento, che raggiunge la sua piena maturità con la Messa quotidiana soltanto nella recente riforma liturgica, fu raccolta per secoli nelle Tempora di dicembre che prevedevano pure i grandi testi di Isaia sul Messia venturo.   

Un processo analogo avvenne per le Tempora di primavera che, cadendo in Quaresima, assunsero gradualmente i contenuti propri e le finalità specifiche di questo tempo, soprattutto in ordine ai catecumeni e ai penitenti pubblici che si preparavano ai sacramenti pasquali.

Anche le Tempora d’estate risentirono del clima pasquale al punto da deporre il loro naturale carattere penitenziale (cfr. sospensione del Flectamus genua) e richiamare il mistero della vicina Pentecoste.

Il processo di amalgama con i misteri dell’Anno liturgico fu completato quando alla relativa mobilità della data delle Tempora, prossima alle date cosmiche dei solstizi ed equinozi, nel secolo   XI san Gregorio VII (1078) fissò la loro data in relazione appunto alle feste che già alludevano: la Tempora di primavera nella prima settimana di Quaresima; le Tempora d’estate nella settimana ottava di Pentecoste; le Tempora di autunno nella settimana seguente all’esaltazione della Croce (14 sett.); le Tempora d’inverno nella terza settimana di Avvento[2]. Questo mutamento contenutistico ha in realtà condizionato la caratteristica tipica e originale delle Tempora, ossia il loro carattere cosmologico e il loro rapporto con le stagioni, che, di per sé, é autonomo dal ritmo e dai contenuti propri dell’Anno liturgico. Le Tempora di settembre sono le uniche che hanno conservato il carattere singolare e tipico di questo complesso liturgico, riconducendolo alla festa del raccolto conforme alla festa autunnale ebraica dei Tabernacoli (Dt 16, 13ss.).

Un altro fattore ha caratterizzato, fin dal secolo V, la settimana e la liturgia delle Tempora: il conferimento degli Ordini sacri. Papa Gelasio (492-496) stabilì come data definitiva e autentica delle Ordinazioni il sabato delle Tempora, soprattutto quelle di dicembre[3]. La settimana delle Tempora consentiva una iniziazione agli Ordini sacri, simile all’Iniziazione cristiana: nel mercoledì vi era lo scrutinio e l’elezione dei candidati agli Ordini, nel venerdì si annunziavano al popolo i nomi degli eletti, nella veglia notturna del sabato si conferivano gli Ordini stessi. Inoltre «Il digiuno, che fin dall’evo apostolico precedeva le Ordinazioni, trovava in quello delle Tempora una più facile osservanza sia da parte dei candidati, come di tutta la Comunità»[4].

In conclusione possiamo dire che le Tempora sono un’autentica tradizione apostolica, celebrata fin dai primordi della Chiesa e conservata nella tradizione liturgica romana. Al loro contenuto originale di santificazione dell’inizio delle quattro stagioni, subentrarono ben presto altri contenuti connessi, sia ai misteri delle grandi feste cristiane, condensando i temi dei tempi sacri che andavano sviluppandosi nel corso dei secoli, sia accogliendo l’uso liturgico di conferire nei giorni delle Tempora le sacre Ordinazioni.

La crisi delle Tempora

Alla luce di questo breve excursus storico si possono capire le motivazioni per cui nella riforma liturgica del Vaticano II le Tempora siano state tolte dal calendario dell’Anno liturgico universale ed affidate eventualmente alle Chiese locali.

Diversi fatti hanno contribuito all’attuale e diversa impostazione delle Tempora:

– la riforma liturgica ha fortemente potenziato la liturgia della Messa quotidiana, assegnando un lezionario proprio per ogni giorno dell’anno e dotando i tempi di Avvento/Natale e di Pasqua di un formulario di Messa feriale, come in precedenza avveniva soltanto per il tempo di Quaresima. Questa scelta ha contribuito in modo determinante ad oscurare l’incidenza e la ricchezza secolare della liturgia delle Tempora, soprattutto quelle di inverno (in Avvento) e di primavera (in Quaresima). Infatti, se ciascun giorno di Avvento e di Quaresima ha una propria eucologia e ogni giorno dell’anno ha pure un proprio lezionario, cade l’apporto tipico delle Tempora la cui ricchezza eucologica e scritturistica viene distribuita sull’intero arco dei giorni del tempo sacro in cui si celebrano.

– la parziale perdita del contenuto originario in relazione alle stagioni e al creato ha indebolito la primitiva identità delle Tempora, impiegate ormai da secoli ad assecondare il mistero delle grandi feste liturgiche a loro prossime, sempre più elaborate nel loro sviluppo: la fedeltà ai contenuti cosmologici originari, avrebbe salvaguardato maggiormente il ruolo liturgico di queste antiche celebrazioni.

– la scomparsa totale del digiuno, elemento fondamentale dei giorni delle Tempora, ha soppresso il carattere penitenziale e ne ha snervato la loro forza spirituale ed incidenza ascetica.

– le sacre Ordinazioni, per secoli assegnate rigorosamente alle Tempora, vengono attualmente conferite in ogni altro giorno, preferibilmente di domenica, e non sono più collegate al digiuno ascetico preparatorio.

– il riferimento univoco alle stagioni, diverse nei due emisferi, ha portato a delegare alle Conferenze episcopali la disciplina delle Tempora, togliendo ad esse quel carattere uniforme e universale che avrebbero potuto conservare in rapporto alle quattro date cosmiche dei due solstizi ed equinozi, comuni a tutte le parti geografiche del pianeta. Infatti, se le stagioni di primavera, estate, autunno e inverno non coincidono nei due emisferi o sono assenti, resta il fatto che le date dei solstizi e degli equinozi sono identiche su tutta la terra, offrendo una divisione oggettiva dell’anno solare, comune a tutti i popoli del globo. In tal modo si deducono due prospettive: considerando il rapporto con le stagioni si comprende il carattere locale e diversificato della celebrazione delle Tempora; considerando invece il rapporto cosmico con i due solstizi e i due equinozi si coglie il carattere universale ed uniforme delle Tempora in tutta la Chiesa. Il tema dovrebbe essere materia di dibattito per non rischiare di alienare totalmente, nelle precarie scelte locali, una tradizione tanto rilevante, antica, universale e costante nella liturgia romana.

Questo insieme di cause hanno portato ad una crisi dell’antico impianto delle Tempora, che esige innanzitutto una nuova indagine teologica per coglierne il mistero e, di conseguenza, una più illuminata definizione rituale per l’edificazione del popolo di Dio.

[1] Cfr. RIGHETTI, Storia liturgica, vol. II, p. 41.

[2] Idem, p. 44.

[3] Idem, p. 45.

[4] Idem.

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