IL PRIMATO E LA CENTRALITÀ DELLA LITURGIA NEL VATICANO II – terza parte

 

DON ENRICO FINOTTI

Se è il diritto della Chiesa che detta le condizioni di legittimità di governo dei pastori, è altrettanto vero che la consacrazione episcopale è essenziale per entrare a far parte del collegio apostolico. Possiamo affermare quindi che il sacramento è il fondamento (ontologico) di questo collegio?

Un secondo importante aspetto che consegue dalla sacramentalità dell’intero triplice munus episcopale è il fondamento sacramentale della collegialità episcopale.

Nell’impostazione giuridica del potere di giurisdizione, inteso in senso extrasacramentale, si poteva ritenere che il Collegio episcopale fosse una creazione del diritto pontificio: 

«unica e vera radice della collegialità appariva la giurisdizione episcopale sopra una determinata diocesi. Perciò la collegialità era completamente staccata dalla realtà sacramentale e trasferita nel piano della sola realtà giuridica; poiché nell’attuale prassi della Chiesa latina la giurisdizione viene difatti assegnata ai vescovi dal papa, era naturale la conclusione, di considerare, in definitiva, il collegio dei vescovi come una pura creazione del diritto pontificio» (J. Ratzinger, La collegialità episcopale dal punto di vista teologico, in G. Baraúna, ed., La Chiesa del Vaticano II, p. 738).

Infatti era costituito da quei vescovi che erano investiti di reale giurisdizione, i vescovi residenziali, ed escludeva i vescovi titolari.

Era la giurisdizione la tessera di appartenenza al Collegio episcopale e la conditio sine qua non per la partecipazione con voto deliberativo nel Concilio Ecumenico.

I vescovi erano chiamati nel Collegio non dal semplice essere vescovi, divenuti tali nella consacrazione, ma per l’investitura giuridica ricevuta dal Papa.

La loro appartenenza al Collegio non era fondata sul sacramento, ma sul diritto.

Ciò risulta evidente nella normativa del precedente Codice quando stabilisce chi e a quale titolo abbia diritto di partecipare con voto deliberativo a un Concilio Ecumenico[1].

Con l’ecclesiologia sacramentale i vescovi appartengono immediatamente al Collegio per la pienezza del sacramento dell’Ordine ricevuto.

Certo, il diritto dovrà stabilire i termini dell’esercizio del loro ministero all’interno del Collegio, ma i vescovi sono creati membri del collegio apostolico mediante la consacrazione.

«è inequivocabilmente chiaro, che il collegio dei vescovi non è semplicemente una creazione del papa, ma trae la sua origine da un atto sacramentale e rappresenta così un dato di fatto insopprimibile della struttura della Chiesa, che nasce dalla natura stessa di questa, stabilita dal Signore – anche se il concreto esercizio della collegialità ha poi bisogno di più precise determinazioni da parte del diritto positivo» (J. Ratzinger, «La collegialità episcopale del punto di vista teologico», in G. Baraúna, ed., La Chiesa del Vaticano II, p. 739).

La collegialità episcopale allora ha essa pure un fondamento liturgico e la liturgia sta a fondamento dell’Ordo episcoporum in quanto tale.

Mediante il sacramento è Cristo stesso che crea con un intervento soprannaturale i membri e il loro legame ontologico che li fa fratelli nell’essenza soprannaturale che scaturisce dal carattere indelebile dell’Ordine episcopale.

Il Collegio dei Vescovi, il cui capo è il Sommo Pontefice e i cui membri sono i Vescovi in forza della consacrazione sacramentale e della comunione gerarchica con il capo e con i membri del Collegio, e nel quale permane perennemente il corpo apostolico, insieme con il suo capo e mai senza il suo capo, è pure soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa universale (CDC 1983 – Can. 336).

Dall’impostazione sacramentale della teologia dell’episcopato scaturisce con coerenza e chiarezza la determinazione giuridica che ciascun Vescovo, in quanto tale, ha il diritto e il dovere di partecipare al Concilio Ecumenico con voto deliberativo:

Tutti e soli i Vescovi che sono membri del Collegio dei Vescovi hanno il diritto e il dovere di partecipare al Concilio Ecumenico con voto deliberativo (CDC 1983 – Can. 339 – § 1).

Il numero crescente di vescovi diocesani, dei coadiutori e degli ausiliari che, a norma del can. 401 del CIC, hanno rinunziato all’ufficio, costituisce ormai un evento di grande importanza nella vita della Chiesa. Essi continuano, anche se emeriti, ad essere membri del collegio dei vescovi “in virtù della consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica con il capo e con i membri del collegio” (can. 336). Hanno perciò il diritto di intervenire al concilio ecumenico con voto deliberativo (can. 339) e di esercitare la potestà collegiale entro i termini di legge (can. 337§2) (Congregazione dei Vescovi, Normae In vita ecclesiae, nn. 167-168, in EnchVat, XI, n. 143).

 

Anche la Chiesa locale – come la diocesi, la parrocchia… – ha un fondamento sacramentale. È proprio questa dimensione sacramentale che dà fondamento al diritto delle chiese locali.

Infine, un’importantissima conseguenza si ha nello statuto ontologico della Chiesa particolare o locale.

In una prospettiva giuridica essa poteva apparire come un distretto determinato dal diritto pontificio e una emanazione di tale autorità giuridica.

In questa veste appariva solo la dimensione universale della Chiesa, ma poteva scomparire la percezione del reale valore dell’unica Chiesa che si realizzava veramente nella sua dimensione particolare e locale (diocesi).

Ora, dal momento che la Chiesa locale aderisce al proprio vescovo come a una sua personalizzazione (è anzi il ministero del vescovo che legittima una porzione del popolo di Dio come vera Chiesa che vive in un determinato luogo) e dal momento che il vescovo è fatto e fondato nel sacramento che lo ha generato e ne alimenta continuamente il suo triplice ministero, la conseguenza è che la Chiesa locale stessa, poggiando su di lui come su un basamento, partecipi della sua energia sacramentale e abbia entità ontologica previa a ogni successiva e necessaria determinazione giuridica.

Quindi anche la realtà della Chiesa locale mutua il suo status ontologico non dal diritto, ma dal sacramento e quindi ha nella liturgia la sua fonte, la sua stabilità e la sua continua crescita.

 

Infine nella Lumen Gentium si sottolinea il primato del battesimo sul diritto nella Professione religiosa. La professione religiosa può essere in realtà un modo più efficace di vivere la vita cristiana data in dono e scaturita dal battesimo?

Nell’impostazione giuridica dell’ecclesiologia il diritto configura i religiosi come uno stato intermedio tra la gerarchia e i laici: così li descrive il precedente Codice di Diritto Canonico (1917).

Infatti il diritto evidenzia con chiarezza la specificità giuridica nella Chiesa dei tre fondamentali stati di fedeli: chierici, religiosi e laici.

In una visione ecclesiologica sacramentale, invece, nella quale emerge il fondamento ontologico del battesimo e quello altrettanto ontologico dell’Ordine sacro, la configurazione interna del popolo di Dio si delinea in due fondamentali stati di fedeli, i laici e il clero.

Tutti i fedeli in quanto tali sono generati dall’unico battesimo, i membri del clero poi sono ulteriormente qualificati da un apporto ontologico nuovo dato dall’Ordine sacro.

I religiosi in relazione al battesimo non costituiscono una categoria essenzialmente diversa nella Chiesa, ma esprimono una scelta radicale in ordine allo sviluppo della stessa grazia battesimale.

Ciò si compie sia in religiosi che provengono dallo stato laicale, sia provenienti da quello clericale.

Il battesimo è la fonte e il referente essenziale degli uni e degli altri e non si dà alcun altro sacramento loro tipico che li definisca in categoria specifica entro la Chiesa.

Se sacramentalmente sono quindi fedeli per così dire “ordinari”, giuridicamente la Chiesa ne definisce la regola e gli statuti.

Ma questo atto successivo, in una ecclesiologia che dà il primato al sacramento, soprattutto a quello del battesimo, non è tale da dare loro una configurazione ontologica soprannaturale specifica quale invece è quella dei due stati di diritto divino, il clero e i laici.

Quindi anche i religiosi sono fondamentalmente eretti sulla forza e la centralità del sacramento e solo lateralmente, anche se necessariamente, interviene la determinazione giuridica della Chiesa.

Per questo si giustifica la presentazione singolare dello stato religioso nella Lumen gentium (cap. VI) che segue ed è diretta conseguenza del capitolo sulla santità comune a tutto il popolo di Dio (cap. V), di cui lo stato religioso è eminente forma.

In seguito anche l’importanza non indifferente accordata ai riti liturgici con cui la Chiesa circonda la professione religiosa afferma quella centralità e primato che la liturgia assume nella dottrina ecclesiologica della Lumen Gentium.

[1] CDC 1917 – Can. 223: § 1. Vocantur ad Concilium in eoque ius habent suffragi deliberativi: 1° S.R.E. Cardinales, etsi non Episcopi; 2°. Patriarchae, Primates, Archiepiscopi, Episcopi residentiales, etiam nondum consacrati; 3°. Abbates vel Prelati nullius; 4°. Abbas Primas, Abbates Superiores Congregationum monasticarum, ac supremi Moderatores religionum clericalium exemptarum, non autem aliarum religionum, nisi aliud convocationis decretum fuerat. § 2. Etiam Episcopi titulares, vocati ad Concilium, suffragium obtinent deliberativum, nisi aliud in convocatione espresse caveatur. § 3. Teologi ac sacrorum canonum periti, ad Concilium forte invitati, suffragium non habent, nisi consultivum. è del tutto evidente come in questo Canone il voto deliberativo sia conferito in base alla giurisdizione, anche se la consacrazione sacramentale non vi fosse, come taluni cardinali (Cardinales, etsi non Episcopi) o non fosse ancora intervenuta (Episcopi residentiales, etiam nondum consacrati). Inoltre per i Vescovi titolari il voto deliberativo è una concessione, che può anche essere tolta (nisi aliud espresse caveatur).

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