LE DIDASCALIE NELLA PRASSI CELEBRATIVA – seconda parte

 

“I riti splendano per nobile semplicità, siano chiari nella loro brevità e senza inutili ripetizioni, siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC34).

Alla luce di queste splendide ed inequivocabili parole è possibile ritrovare la giusta impostazione ed operare i necessari emendamenti per una riqualificazione dell’azione liturgica nella sua bellezza ed efficacia.

Alcune considerazioni sul costume abusivo, ormai largamente invalso, offrono argomenti per una necessaria riflessione:

1.  La Liturgia è ridotta a catechesi e intrattenimento

Il rito è ridotto quasi al solo codice verbale: tutto è spiegato. Gli altri codici – il simbolo, il gesto, il silenzio, ecc. – vengono sopraffatti dalla parola, rendendo la celebrazione noiosa e pesante. Il messaggio non è più accolto, perché immerso in un cumulo di radiazioni verbali. Le letture bibliche e i testi eucologici non dicono molto da se stessi, in quanto già anticipati, spiegati dai commenti; i grandi elementi rituali divengono quasi ancelle di una pletora di parole, che formano ormai la trama dell’intera celebrazione. Il modo poi di recitare le formule eucologiche, freddo ed affrettato, non regge al confronto con il commento, calmo e caldo, fatto prima e dopo dal sacerdote. Ad esempio, le preci sacramentali sono inserite in una lunga spiegazione, che le precede e le segue, i gesti e i simboli esplicativi vengono non raramente travolti da un fiume di parole, aggiunte senza misura. Si ha come l’impressione che il simbolo offerto con semplicità e nobiltà, sia sterile. Vi è quasi l’orrore del vuoto. Sembra che un’orazione proclamata con calma e dignità non sortisca effetto, ed ecco la necessità di porla su un cuscino di parole, che si rivela complicato e che neutralizza l’efficacia del linguaggio liturgico. Quando ripetutamente si assiste ad una Messa celebrata in tal modo si prova noia, stizza e si esce stanchi. Se poi questi commenti vengono fatti dal sacerdote in modo intellettualistico, ideologico, paternalistico o devozionistico, allora la misura è colma. Per non parlare del caso in cui, come purtroppo spesso succede, la celebrazione viene gestita con toni populistici, suscitando applausi e interventi plateali o, per attirare l’attenzione, si aggiunge anche l’elemento umoristico, con battute e conseguenti sorrisi. Ciò non è infrequente, anche perché da molti sacerdoti e fedeli così formati si ritiene che queste siano le opportune modalità per creare una liturgia viva e partecipata. In realtà tali celebrazioni distolgono dal Mistero di Cristo, fanno dimenticare il senso del sacro, la contemplazione, l’interiorizzazione, l’invito alla conversione, risolvendosi in banale intrattenimento. La perdita gravissima del nucleo essenziale dell’azione liturgica è evidente: il Mistero pasquale di Cristo, che qui ed ora ci salva, accolto come dono gratuito, che viene dall’alto, attraverso la mediazione della secolare Tradizione della Chiesa, la quale lo comunica a noi con modalità oggettive e predefinite.

“La revisione dei riti ha cercato una nobile semplicità e segni facilmente comprensibili, ma la semplicità auspicata non deve degenerare nell’impoverimento dei segni, al contrario: i segni, soprattutto quelli sacramentali, devono possedere la più grande espressività. Il pane e il vino, l’acqua e l’olio, e anche l’incenso, le ceneri, il fuoco e i fiori, e quasi tutti gli elementi della creazione hanno il loro posto nella liturgia come offerta al Creatore e contributo alla dignità e alla bellezza della celebrazione” (GIOVANNI PAOLO II, Vicesimus quintus annus, in Enchiridion Vaticanum, vol. 11, n. 1583).

2.  La caduta del ritmo celebrativo

L’eccesso di interventi e monizioni sconvolge il ritmo celebrativo. I vari momenti rituali perdono il loro genio e linguaggio. Sono accostati l’uno all’altro senza più essere protagonisti del rito, ma, snervati, vengono offerti e diversamente sottolineati dalla logorante prolissità delle parole, che li commenta, li arresta, li interpreta, o anche li banalizza, oppure li ingigantisce in modo indebito. L’andamento generale della celebrazione non è più dato dalla successione, dalla durata e dalla natura dei singoli elementi rituali, ma dal ‘substrato monitorio’ del celebrante. Sarebbe come eseguire un pezzo musicale e continuamente interromperlo per darne spiegazioni e commenti, anziché permettere che l’esecuzione stessa della musica ne offra il messaggio immediatamente attraverso il genio proprio del suo linguaggio.

3. La sfiducia nei riti e nelle preci stabilite

Il commento sommerge riti e preci. Essi non parlano da se stessi, ma sono stemperati nel cumulo delle parole accessorie. Ciò che può essere espresso col gesto non si deve esplicare con un discorso. La parola delle preci liturgiche è già sufficiente e pensata per trasmettere il contenuto senza necessità di surrogati e ulteriori sostegni verbali. In caso contrario l’attenzione è assorbita dal commento, i concetti da esso anticipati e analizzati perdono il mordente e così la mente distratta non coglie con immediatezza e novità il messaggio trasmesso dai codici liturgici, che sono ritenuti poveri o comunque non sufficienti o non incisivi per la trasmissione del contenuto proprio del mistero celebrato. Il sermone o codice verbale si ingigantisce, di conseguenza soffoca il linguaggio simbolico. La parola essenziale, ritmica e poetica delle preci previste e lo spazio dato al silenzio, sono ritenuti poco efficaci. Così viene proclamata di fatto la sfiducia nel linguaggio simbolico-liturgico e la celebrazione scade nel migliore dei casi in una conferenza, oppure in un intrattenimento libero e spontaneistico.

4.  L’oscuramento del Mistero

Il senso del mistero richiede moduli espressivi tipici e originali. Non ogni espressione è adatta e capace a suscitare nell’Assemblea radunata il senso del Mistero, ossia a percepire la presenza divina che vi aleggia. Per crearlo e mantenerlo bisogna anzitutto saper fare e saper gustare il silenzio esteriore e interiore. Poi occorrono riti, gesti e simboli ispirati alla nobiltà, alla qualità, alla contemplazione. Essi devono essere idonei ad elevare i fedeli alle cose di Dio e introdurre nella preghiera. Ora, l’intervento continuo dei commenti riduce il senso del Mistero rendendo sterile il genio tipico ed efficace del linguaggio liturgico. Senza silenzio sacro non nasce la contemplazione, senza bellezza e arte le cose di Dio diventano opache, senza il linguaggio della Tradizione biblico-ecclesiale il Mistero è privo di identità e si perde nella nebbia del soggettivismo. È dunque necessario che questi codici espressivi vengano rispettati integralmente in modo da potersi dispiegare con la massima efficacia. Ciò non accade se non viene frenato il rullo assordante e livellatore delle parole inutili ed eccessive.

5.  Il taglio soggettivo e riduttivo della celebrazione

I commenti corrono il pericolo di imporre all’Assemblea un taglio riduttivo, o almeno selettivo della Parola di Dio proclamata e dei riti liturgici stabiliti. Tali elementi sono densi di significati e suscitano nei presenti sensibilità, emozioni e sottolineature di ampio respiro. Ora il commento corre il pericolo di livellare la Parola e il messaggio simbolico-liturgico a letture univoche, mortificando l’opera dello Spirito, che ha riflessi diversi in ciascun fedele. La proclamazione degna della Parola nella sua essenzialità e la celebrazione lineare e pregna del rito rispettano sia il Mistero che si rivela, sia il fedele e l’assemblea che celebra.

6.  La clericalizzazione del rito

La celebrazione continuamente commentata, appare manipolata e gestita, talvolta capricciosamente, dal clero. Un rito che viene celebrato con continui interventi del sacerdote suscita l’impressione che la liturgia sia cosa sua e mostra il ministro non più al servizio del rito e del mistero che viene celebrato, ma come padrone, che dispone arbitrariamente di riti e preci, le quali in realtà sono patrimonio di tutta la Chiesa. I fedeli allora non si trovano più di fronte al culto voluto dalla Chiesa, ma alla sua mistificazione, secondo le mutevoli sensibilità del celebrante.

Il costante martellamento postconciliare su temi quali la creatività, la partecipazione, l’antirubricismo, ecc., ha portato a forme soggettive e selvagge, che in realtà sostituiscono la celebrazione del Mistero – garantito invece dalle forme stabilite dalla Chiesa nei libri liturgici – con espressioni sempre mutevoli, create di volta in volta secondo la percezione e gli umori del sacerdote e del gruppo dominante. La liturgia appare allora alla stregua di una materia malleabile che il sacerdote modella sulla cronaca giornaliera, con attenzione alla vita dell’uomo – si dice – ma comunque con grande distrazione dal Mistero di Cristo, che è il motivo fondamentale per cui la liturgia viene celebrata. Il messale, posto sull’altare, non è solo strumento funzionale, ma anche simbolo della dipendenza del ministro sacro da ciò che lo supera e che è tenuto a servire e non a corrompere. Osservare il rito così come riportato nel messale è un atto di giustizia verso tutto il popolo di Dio.

La fedeltà quindi alle preci e alle rubriche è fondamentale per una celebrazione vera, che mantenga la sua identità di atto di Cristo, di culto di Lui e della sua Chiesa. La rete degli interventi umani nella quale vengono fagocitati i momenti liturgici provoca un’ illecita clericalizzazione della liturgia e un illegittimo esproprio della stessa al suo proprietario naturale, la Chiesa. Tale procedimento è talvolta condiviso da gruppi di pressione che aderiscono alla mentalità soggettiva di sacerdoti-leader, piegando così la liturgia al servizio di un gruppo, di una spiritualità o di una ideologia, con evidente emarginazione dell’Assemblea ordinaria, ampia e normale della Chiesa.

(CONTINUA)

 

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