I VESPRI DELLE TENEBRE (prima parte)

GIOVANNI BELLINI – Cristo morto sorretto da due angeli (1460) – Tempera su tavola, 74 x 50 cm, Venezia

don Enrico Finotti

 

I          L’«Ufficio delle tenebre» nella  tradizione liturgica romana

Una delle tradizioni liturgiche più singolari e popolari nel complesso rituale della Settimana Santa, secondo il rito Romano, è la celebrazione simbolica del Tenebrae factae sunt nel contesto dei cosiddetti «Mattutini delle tenebre», come ancor oggi sono previsti dall’ Officium majoris hebdomadae (Vetus Ordo). Si tratta dell’Ufficio notturno (Ad Matutinum) e delle Lodi (Ad Laudes) dei tre giorni del Triduum sacrum, così come era computato nel Vetus Ordo: Giovedì, Venerdì e Sabato santo. Occorre ricordare che la Liturgia del Triduo sacro, in uso fino alla riforma liturgica del Vaticano II, conserva la forma più antica dell’Ufficio romano, quando ancora non erano subentrati elementi più tardivi come l’Inno e la dossologia terminale dei salmi. Ma qual è il motivo per il quale tale Ufficio è chiamato «delle tenebre»? Perché, dopo ogni salmo, si spegne uno dei ceri posti su uno speciale candelabro detto «saetta»: si tratta di una serie di quindici ceri, che vengono estinti durante la salmodia del Mattutino e delle Lodi. L’Ufficio si conclude nell’estinzione totale delle luci, ricordando l’evento evangelico dell’oscurità che avvolse il mondo alla morte del Signore. Un solo cero residuo rimane acceso: tolto dal candelabro e nascosto per qualche istante, ricompare di nuovo sull’altare per annunziare la risurrezione del Signore, luce che vince le tenebre del peccato. L’Ufficio, che in origine veniva cantato nel versante mattutino della notte, venne in seguito anticipato nella sera antecedente dei tre giorni santi: mercoledì, giovedì e venerdì. Il popolo cristiano vi partecipava numeroso e i fedeli restavano alquanto colpiti dalla forza del simbolismo.

II         La singolare forza del simbolo nella liturgia

Alla luce di questa antica tradizione, si deve riconoscere quanto sia efficace il simbolo nella liturgia, al punto che il rito, con i suoi gesti e la sua «scenografia», colpisce l’impressione dei fedeli con un vigore ben superiore anche ai testi delle orazioni più insigni. Il linguaggio simbolico, infatti, educa al significato e ai contenuti misterici con un impatto immediato e di sicura presa psicologica. Il popolo, perlopiù estraneo all’aspetto logico delle formulazioni ecologiche, riceve luce dalla semplicità, immediatezza e fascino della regia rituale, fatta da movimenti, colori, luci e suoni ben coordinati in ordine alla descrizione e alla trasmissione dei misteri celebrati. L’esperienza cultuale e secolare della Chiesa ben ne è consapevole ed esibisce un ventaglio espressivo collaudato da molte generazioni e sempre attuale nelle sue manifestazioni più comuni e costanti. L’uso diversificato delle luci é parte integrante del linguaggio simbolico da tutti ammesso. Soltanto nell’odierna riduzione razionalistica viene emarginato con grave danno ai riti e alla percezione immediata dei loro significati da parte di tutti i fedeli, sia delle persone semplici, come di quelle più preparate e intellettualmente elevate.

 

III       L’assenza dell’antico rito nella vigente liturgia

Nell’assetto liturgico vigente, riformato per decreto del Concilio Vaticano II, l’«Ufficio delle tenebre» è del tutto scomparso. Diverse sono le cause. Innanzitutto è mutato il concetto di Triduo sacro, chiamato ora Triduo pasquale. Non si tratta più di considerare il Triduo sacro come le tre importanti ferie che precedono la Domenica di Pasqua, ma di celebrare la stessa solennità di Pasqua in tre giorni, pervasi dal medesimo grado di solennità: Venerdì in passione et morte Domini, Sabato in sepultura Domini, Domenica in resurrectione Domini. La Pasqua, solennità delle solennità, ha, quindi, un’estensione di tre giorni, nei quali si entra, come da un solenne portale, con la Missa in Cena Domini, celebrata al tramonto del Giovedì santo, che resta l’ultimo giorno della Quaresima. In tal modo muta totalmente l’assetto precedente del Triduum sacrum: il Giovedì santo esce dal novero dei giorni del Triduo pasquale e vi entra a pieno titolo la Domenica di Pasqua. Si intende allora che anche l’Ufficio del Triduo non consiste più in quello del Giovedì, Venerdì e Sabato santo, bensì in quello del Venerdì, Sabato e Domenica di Pasqua. Inoltre con la riforma della Settimana santa, già di Pio XII (1955), le azioni liturgiche principali sono state portate dalle ore mattutine alle competenti ore serali, nelle quali precedentemente si potevano celebrare con facilità i Mattutini delle tenebre con la partecipazione del popolo. Attualmente, infatti, queste ore sono occupate dalla Missa in Cena Domini (Giovedì santo) dall’Actio liturgica (Venerdì santo), dalla Veglia pasquale (notte di Pasqua). Si potrebbe allora prospettare di recuperare l’estinzione dei ceri nel vigente Ufficio del Triduo pasquale (escludendo naturalmente l’Ufficio della domenica di Pasqua), ma ciò non sembra possibile in quanto tale Ufficio ha perso il suo carattere notturno, essendo raccomandato col popolo nella mattinata del Venerdì e del Sabato santo, quando il segno della luce non avrebbe più alcun impatto visivo.

 

IV       Un possibile recupero del «rito delle tenebre» nella liturgia?

A questo punto subentra il tentativo di un ricupero del rito delle tenebre, celebrandolo in modo adeguato e coerente nei Vespri delle prime tre ferie della Settimana santa (lunedì, martedì e mercoledì santo), quando gradualmente la liturgia passa dagli Osanna della domenica delle Palme ai Crucifige del Venerdì santo. Infatti in queste ferie, annoverate tra le ferie maggiori, la liturgia proclama i Carmi del Servo di Yahweh e gli antefatti evangelici alla Passione ormai imminente. In questi giorni il Signore porta a compimento la sua predicazione, attirando grandi folle nel tempio: «All’alba Gesù si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava» (Gv 8, 2), mentre, alla sera, si ritira con i suoi discepoli nell’orto degli ulivi: «La notte Gesù usciva da Gerusalemme e pernottava all’aperto sul monte detto degli Ulivi» (Lc 21, 37b). Sono giorni che, secondo i racconti evangelici, rivelano una graduale apostasia dal Signore, anche se ancora le folle esultanti della domenica precedente delle Palme accorrono di buon mattino per ascoltarlo, pendendo dalle sue labbra: «Durante il giorno Gesù insegnava nel tempio. E tutto il popolo veniva a lui di buon mattino nel tempio per ascoltarlo» (Lc.21,37). Ebbene il contenuto del mistero di queste austere ferie potrebbe essere alquanto opportuno per recuperare nei Vespri serali il singolare rito del tenebrae factae sunt con la graduale estinzione dei ceri che interpretano simbolicamente l’avanzare della desolazione che circonda sempre più il divin Maestro fino a sfociare nelle ore tristi della sua Passione redentrice.

 

V         I vespri maggiori di Passione o «Vespri delle tenebre»

Il rito, qui proposto per la celebrazione con il popolo, ha carattere di pio esercizio e ricorre a quelle sagge indicazioni che sono offerte dal «Direttorio su pietà popolare e liturgia» (2002), lì dove si raccomanda che i riti liturgici possano, in alcune circostanze e giorni singolari, essere integrati con alcuni elementi propri della pietà popolare, per elevare il popolo alla liturgia e portare questa al popolo, mediante una sobria ed accorta selezione di simboli desunti da una vagliata tradizione. E’ ciò che fu fatto anche per le ferie maggiori di Avvento, quando ai vespri del giorno si accostano alcuni elementi della novena del Natale (profezie, polisalmo, ecc.).

In particolare i «Vespri di Passione», che potremmo denominare anche «Vespri delle tenebre», presentano queste caratteristiche:

  1. Gli elementi propri dei Vespri di queste ferie rimangono sostanzialmente invariati: lo splendido inno Vexilla regis prodeunt, le antifone ai salmi, le letture brevi, le Intercessioni e l’orazione.
  2. Si premette ai Vespri un breve e austero ‘prologo’, che consiste nel far memoria del triste monito del Signore alla città santa: Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti, ecc. (Mt 23, 37-39). La breve pericope evangelica, cantata a modo di capitolo, è seguita dall’antico lamento col quale si concludevano le lezioni tolte dalle Lamentazioni nel primo notturno dei Mattutini: Jerusalem, Jerusalem, convertere ad Dominum Deum tuum. Il lamento è cantato dalla schola per tre volte in tono crescente. Viene in tal modo riproposto il commovente e sempre più flebile invito che il Signore rivolse a Gerusalemme ormai impenitente.
  3. La salmodia, essendo quella ordinaria del salterio, viene sostituita da una salmodia più intonata alla celebrazione ed inalterata nei tre Vespri per rendere più facile e popolare la sua esecuzione e favorire la fissazione del mistero. Si tratta delle prime due parte del salmo 21: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato e dal cantico di san Pietro (1° Pt 2, 21-24) usato nell’Ufficio quaresimale.
  4. Caratteristiche sono le tre antifone al Magnificat che, con quella dei secondi Vespri della domenica delle Palme, formano nel testo latino il singolare acrostico: Ego sum qui sum (Es 3,14).
  5. Ed ecco infine il rito vero e proprio «delle tenebre» a conclusione dei Vespri: durante il canto di scelti versetti biblici, raccolti a modo di polisalmo, si spengono gradualmente, in corrispondenza ad ogni versetto, i molteplici ceri, che, predisposti in antecedenza, ardono nel presbiterio. Il sacerdote con i ministri sta inginocchiato ai piedi dell’altare mentre gli accoliti provvedono all’estinzione dei ceri. Se i Vespri sono stati cantati coram exposito, come si usa lì dove si celebrano le sacre Quarantore, impartita la benedizione eucaristica, il canto del polisalmo con l’estinzione dei ceri accompagna la processione di reposizione, imitando in tal modo quel ritiro serale del Signore dal tempio al Getzemani, secondo la descrizione evangelica (cfr. Lc 21, 37b). Al termine del rito si spengono parzialmente anche le luci elettrice, mentre nel mercoledì santo l’estinzione della luce sarà totale.
  6. Il mercoledì santo è il giorno nel quale la Chiesa commemora il tradimento di Giuda e perciò, al termine del polisalmo, si proclama la relativa pericope evangelica (Mt 26, 14 – 16) e si spengono totalmente le luci.
  7. Una singolare attenzione intende pure recuperare il dettaglio di quell’ultimo cero che negli antichi Mattutini restava acceso: ed ecco che tra i molteplici ceri predisposti fin dall’inizio si pone su un candelabro distinto un lume speciale che vuole significare la fede intrepida di Maria SS., cha mai venne meno nell’ora delle tenebre. Questa lampada, infatti, resta accesa e, da sola, è in grado di alludere alla presenza forte e permanente della Corredentrice accanto al Redentore.
  8. Per l’esecuzione del «rito delle tenebre» è necessario predisporre l’apparato adeguato dei ceri che adornano l’altare e la zona circostante. La tradizione delle Quarantore celebrate nelle ferie della Settimana santa offrirebbe l’opportunità di un complesso di quaranta ceri, che richiamano sia il numero delle Ore, sia quello dei giorni della stessa Quaresima, consentendo l’estinzione di dodici ceri ogni giorno (sedici il mercoledì santo), secondo il numero dei versetti del «polisalmo delle tenebre». Se si impiega un minor numero di ceri, questi si dovranno spegnere dopo due o più versetti, riducendo tuttavia l’impatto visivo della loro estinzione.

Il rito, come sopra descritto, viene qui pubblicato per intero per consentire la conoscenza completa di ogni sua parte e, se si ritiene opportuno, assumerlo tra i pii esercizi possibili nel contesto della Settimana santa.

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