I DUE CARDINI DELLA LITURGIA

DON ENRICO FINOTTI

 

Il rito liturgico poggia su due cardini: il Diritto e il Sacro.  Se questi cardini cedono, l’intero rito cade rovinosamente o almeno viene seriamente compromesso.

Il rimprovero di Dio al suo popolo, in Isaia 29, 13-14, raccoglie insieme la compresenza nel culto santo di queste due dimensioni: la fedeltà alle leggi rituali stabilite da Dio (il Diritto), che non ammettono di essere sostituite con l’imparaticcio di usi umani, e la percezione viva della presenza del Signore (il Sacro), che contrasta col formalismo di un culto solo a parole e con le labbra, mentre il cuore è lontano da Lui.

Dice il Signore: «Poiché questo popolo
si avvicina a me solo a parole
e mi onora con le labbra,
mentre il suo cuore è lontano da me
e il culto che mi rendono
è un imparaticcio di usi umani,
perciò, eccomi, continuerò
a operare meraviglie e prodigi con questo popolo;
perirà la sapienza dei suoi sapienti
e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti.

Il Diritto

Il rito liturgico è costruito in base ad un progetto che la Chiesa ha ricevuto nella sua sostanza da Cristo Signore e che gli Apostoli hanno ulteriormente determinato. Esso è una parte importante del depositum fidei, che la Chiesa deve trasmettere integro nei secoli, fino al ritorno glorioso del Signore. In questa tradizione le successive generazioni dei credenti, non senza una interiore mozione dello Spirito Santo, hanno arricchito i riti liturgici, sempre in una crescita omogenea e organica, senza perdere mai quell’originale identità, impressa dal Signore stesso, fin dalla loro istituzione. Ebbene, l’insieme delle leggi, che regolano il rito e il complesso dei simboli, dei gesti, delle parole impiegate in vario modo (orazioni, monizioni, saluti, acclamazioni, canti, ecc.) con il loro specifico linguaggio e nei loro rapporti reciproci, costituiscono il Diritto liturgico. Il rito regge soltanto se si osserva il diritto che lo sorregge, ne determina la sua fisionomia specifica, lo mantiene nella sua identità, lo protegge da ogni riduzione e inquinamento. Diversamente, ogni attentato al Diritto liturgico compromette la verità del rito e ne scompagina l’equilibrio e il rapporto delle sue parti, ne altera il simbolismo dei suoi segni e corrompe il senso preciso dei suoi testi (eucologia). L’ars celebrandi, tanto raccomandata dalla Chiesa, significa fondamentalmente saper celebrare con competenza e applicare con intelligenza le leggi del Diritto liturgico. Nello stesso modo che l’arte di un musicista sa rispettare in pieno lo spartito e lo sa esprimere con genialità, senza mai tradirlo con una visione ed esecuzione soggettiva e privata. Il rispetto della dimensione oggettiva del rito, così come la Chiesa l’ha definito, è la base del Diritto liturgico e ogni variazione soggettiva, operata da chiunque dovesse agire nella liturgia, è la strada che conduce ad ogni tipo di abuso. Ed ecco allora che la fedeltà al Diritto liturgico implica alcune condizioni indispensabili:

– l’accettazione dei libri liturgici: se si creano riti alternativi a quelli codificati dall’autorità della Chiesa e promulgati nell’editio typica dei libri liturgici si semina fin dall’inizio fuori dall’orizzonte del culto pubblico e ufficiale della Chiesa;

– la conoscenza oggettiva dei gesti, dei simboli e delle preci, che formano il tessuto di un rito (per ritus et preces – SC48), la loro composizione e relazione reciproca, i loro specifici contenuti e il genere letterario proprio di ciascuno;

– il senso teologico sotteso alle varie sequenze rituali, contenuto fondamentalmente nelle Premesse (Praenotanda), immancabili nei singoli libri liturgici: se l’Ordo esibisce la struttura di un rito, i Praenotanda ne forniscono il significato teologico.

Il Sacro

Per Sacro si intende il senso della presenza e dell’azione divina. Si percepisce un clima sacro lì dove si intuisce la presenza di Dio e il suo intervento soprannaturale. Quando tale percezione è autentica ed intensa vi è l’incontro col Mistero, che suscita spontaneamente il silenzio, interiore ed esteriore, nello stupore contemplativo. Nasce allora la preghiera, perché ‘qui c’è Dio’ e aleggia la ‘sobria ebbrezza dello Spirito Santo’. Si comprende in tal modo come una perfetta esecuzione rituale non sia completa senza che subentri la dimensione sacra. Non basta genuflettere, occorre adorare; non basta elevare, occorre offrire; non basta sedere, occorre ascoltare; non basta camminare, occorre incontrare; non basta cantare, occorre glorificare; non basta acclamare, occorre amare; non basta congedare, occorre annunziare; ecc. E’ questo stato d’animo interiore, correlato ai gesti esteriori, che rivela il senso del sacro. Quando nella celebrazione liturgica i gesti corporei sollecitano i sentimenti dell’anima e i sentimenti dello spirito si traducono in gesti e parole, avviene l’incontro del visibile con l’invisibile, dell’uomo con Dio: a questo livello la celebrazione liturgica è autentica. Per questo il Concilio tridentino nel Decreto sul Sacrificio della Messa al cap. V, afferma:

“E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito … delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio”.

Vi sono tuttavia diversi ostacoli che possono impedire questa necessaria corrispondenza dell’anima col corpo, della grazia con la natura, dell’invisibile col visibile. Possiamo ricordarne alcuni:

– Il rubricismo. Quando l’esecuzione dei riti è solo formale, ma senza profondità teologica e afflato spirituale abbiamo il formalismo: una celebrazione certamente fedele alle leggi del Diritto liturgico, ma fredda, sia perché manca di senso teologico, sia perché priva di pulsione spirituale. Un atto veramente umano deve avere in sé il senso per cui lo si pone e al contempo deve emergere lo stato interiore dell’anima che lo ispira. Il monito divino è in tal senso eloquente: questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me (Is 29, 13). Così nella celebrazione liturgica ogni gesto comandato ha un significato teologico e nello stesso tempo vuole suscitare l’incontro interiore (mistico) col Signore e col suo mistero di salvezza. Una celebrazione rubricista potrà certamente conferire validamente la grazia, in quanto compie materialmente ciò che vuol fare la Chiesa (ex opere operato), ma comprometterebbe alquanto la sua fruttuosità.

– La creatività. Diversamente quando l’interiorità soggettiva di ognuno diventa esclusiva e predominante si cade in una creatività selvaggia, senza alcun riferimento alle leggi del Diritto liturgico. Ciò che importa è unicamente l’espressione libera di sentimenti religiosi privati e totalmente sciolti da ogni contenuto oggettivo del culto stabilito da Cristo e dalla Chiesa. Si realizza allora quello che dice Isaia: il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani (Is 29, 13). Questo senso del sacro soggettivo e individualistico, non è in realtà che il riflesso della fantasia e dello stato d’animo di ciascuno, e la forma di un culto prodotto su tali fragili basi finisce per diventare idolatria: un culto di se stessi e delle proprie segrete pulsioni e desideri. Non più adorazione dell’unico vero Dio, che è trascendente al mio piccolo mondo interiore e sovrano nella sua volontà, al di là dei miei desideri psicologici, ma ascolto introverso di sé stessi (anche se associati in gruppo) e celebrazione falsamente autentica della propria volontà e autodeterminazione. Una celebrazione abbandonata ad una totale creatività non solo sarebbe spiritualmente infruttuosa, ma ancor più potrebbe essere invalida, in quanto, non facendo più ciò che vuole fare la Chiesa, la Grazia stessa non verrebbe comunicata.

Evitati allora questi due estremismi si potrà trovare il giusto equilibrio: fedeltà alla lettera, ossia alla forma oggettiva del culto così come il Signore l’ha stabilito e la Chiesa lo ha sempre celebrato nella sua Tradizione e approvato dal suo Magistero; pervaso però dalla devozione di un cuore che crede, spera ed ama e che nelle pieghe dei riti visibili trova la parola e il gesto del Dio invisibile, che suscita la glorificazione in spirito e verità. L’oggettività del Diritto ci assicura il contenuto vero della parola e l’efficacia reale e certa del gesto del Salvatore, mentre il senso del Sacro ci comunica il calore di una presenza, l’adorazione del mistero, lo stupore della verità e la gioiosa gratitudine di che percepisce l’azione misericordiosa ed efficace della Grazia che salva.

L’unione indissolubile della lettera del Diritto con lo spirito del Sacro è la meta di una celebrazione liturgica veramente santa, gradita a Dio e salvifica per noi. Tale equilibrio è il genio dei Santi.

La Pastorale equivoca

Possiamo, infine, porci questa domanda: Come mai nell’attuazione della riforma liturgica, decretata dal Concilio Ecumenico Vaticano II, fra i tanti aspetti positivi, si è anche creata quella crisi, che ha nel crollo del diritto e nella scomparsa del sacro la causa di tanti abusi ?

La pastorale, intesa giustamente come atteggiamento costante di comunicazione col popolo di Dio e di trasmissione efficace della Parola e della Grazia salvifica, è ormai la griglia di lettura predominante nel post-concilio e, radicata fin dall’inizio nel carattere pastorale del Concilio stesso, è trasversalmente presente in ogni ambito ecclesiale, a tal punto, che in certe posizioni estreme, sembrerebbe oscurare anche lo stesso dogma nella sua perennità immutabile.

Non si tratta certo di accusare la pastorale vera quale causa dell’attuale crisi della retta applicazione liturgica, quanto piuttosto di verificare se la stessa pastorale sia oggi fedele al suo vero statuto o non abbia invece in certe sue manifestazioni deragliato dai suoi compiti.

In realtà è venuto meno in una certa visione e prassi pastorale l’orientamento fondamentale ad Deum in favore esclusivo dell’orientamento ad hominem. L’immagine che il papa san Gregorio Magno applica agli angeli, i quali in un continuo sguardo adorante verso Dio sono inviati in missione verso gli uomini, è quanto mai eloquente a delineare la vera impostazione di una pastorale la cui efficacia deve essere misurata soprattutto sul piano soprannaturale:

«Gli Angeli continuamente compiono la volontà di Dio e continuamente contemplano il suo volto» e ancora «Quando gli Angeli sono inviati presso gli uomini, per un servizio esterno, non smettono mai la contemplazione interiore. Essi nello stesso tempo sono inviati e restano alla presenza di Dio»[1].

In altri termini, la svolta antropocentrica ha spinto ad una pastorale diretta ed immediata verso l’uomo, il mondo e le sue situazioni esistenziali, perdendo lo sguardo su Dio e il suo mistero. Per questo il Diritto liturgico con le sue leggi oggettive è stato abbandonato in nome di un approccio all’uomo soggettivo, immediato e il più possibile secolarizzato, per ottenere in tal modo un impatto più veloce e produttivo. L’efficacia sociologica ha sostituito quella soprannaturale. La stessa sorte travolse anche il senso del Sacro, ritenuto uno schermo e un freno all’incontro umanitario dell’uomo, che vive nelle molteplici situazioni quotidiane. In altri termini gli operatori pastorali (ministri e fedeli) hanno distolto lo sguardo contemplativo e adorante dal Mistero e al contempo hanno abbandonato le leggi del Diritto liturgico, che assicuravano tale mistero nei suoi contenuti oggettivi e lo difendevano da interpretazioni fuorvianti. Liberi così da ogni legge interiore ed esteriore si sono avventurati in un’azione pastorale del tutto lasciata alla creatività di ognuno, scoprendo infine di aver perduto il Cristo, la sua Parola e i suoi Sacramenti per trovarsi a comunicare soltanto se stessi, le loro ideologie e le loro liturgie creative. Le leggi liturgiche vennero ritenute degli inutili impacci per comunicare col mondo e la devozione interiore di un cuore che contempla il mistero una indebita e pericolosa estraneazione dalla concretezza della vita. Ed è così che il Diritto e il Sacro sono miseramente crollati e con essi il ‘monumento’ della liturgia, che su tali basi poggiava.

La pastorale vera, invece, non è mai rivolta direttamente ad homines, ma è sempre indiretta e mediata: verso l’uomo sì, ma contemplando sempre Dio in costante ascolto ed obbedienza ad ogni suo cenno. Il sacerdote, infatti, educa la santa assemblea rimanendo sempre fisso in Dio coram Deo e serve il suo popolo stando rivolto al Signore, perché l’orientamento a Dio è essenziale, permanente e insopprimibile in ogni ambito di un’autentica pastorale, ma soprattutto e in modo eminente nella celebrazione della divina liturgia.

Non a caso i fedeli in chiesa fissano tutti l’altare e il loro rapporto è fianco a fianco, non faccia a faccia. L’accorrere al duomo dei fedeli ambrosiani per ammirare il modo mistico di celebrare del loro arcivescovo, il beato cardinale Ildefonso Schuster è la dimostrazione tangibile di questa verità. Così il fascino della Messa di san Pio da Pietralcina e il giudizio altamente elogiativo di san Giovanni Bosco riguardo alla Messa del beato A. Rosmini. Questa direzione è talmente profonda nella liturgia, che la stessa omelia, pur pronunziata verso il popolo, è pervasa dall’intento cultuale e dal linguaggio nobile che è proprio della dossologia di lode. Ne sono esempio mirabile le classiche omelie patristiche, che, lungi dal modo di una comune comunicazione orizzontale di concetti (conferenza), si innalzano, nei momenti nodali del loro sviluppo, nella celebrazione dossologica del Mistero. Questo è pure la caratteristica della Professione di fede (il Credo), che ancor prima di essere una sintesi catechistica è un canto cultuale di fede, proclamata e offerta davanti alla Maestà Divina.

Possiamo individuare alcuni sintomi di questa pastorale equivoca.

Riguardo alla crisi del Diritto liturgico:

– l’attrito tra didascalia e simbolo. Ciò è evidente quando non ci si affida più alla forza del simbolo e alla incisività di una sequenza rituale per se stessa e rispettata nella sua identità, ma si ritiene di spiegare ogni cosa, commentare ogni passaggio, infarcire ogni momento con un cumolo di parole. E’ il collasso del linguaggio simbolico e del genio proprio della liturgia.

– l’attrito tra secolarizzazione e tradizione. Ciò si evince dalla scelta di linguaggi, segni e comportamenti in tutto conformi all’uso corrente, con un chiaro disagio per il linguaggio e i riti trasmessi dalla Tradizione.

Riguardo alla crisi del Sacro:

– il rifiuto dell’orientamento classico e antico ad Deum: tutto ormai si svolge guardando la gente e conversando con essa, anche nel momento della Prece sacrificale e dell’adorazione eucaristica.
– il disagio verso ogni segno di solennità: inchini, genuflessioni, incensazioni, abiti preziosi e addobbi liturgici.
– la difficoltà al raccoglimento personale nella recita delle apologie riservate al sacerdote nel corso della celebrazione.

E’ interessante e consolante concludere con la promessa che Dio fa’ nel testo di Isaia sopra citato. Nonostante il nostro deficit cultuale, tanto difforme dal pensiero del Signore, Egli non permetterà mai la scomparsa totale della invalidità delle azioni liturgiche della sua Chiesa per la salvezza del suo popolo, tuttavia toglierà il prestigio di tutti coloro che, intelligenti e sapienti, hanno osato insidiare i due pilastri del culto santo e profanare in tal modo il santuario in cui abita la gloria della sublime Maestà di Dio.

Perciò, eccomi, continuerò
a operare meraviglie e prodigi con questo popolo;
perirà la sapienza dei suoi sapienti
e si eclisserà l’intelligenza dei suoi intelligenti.

[1] S. Gregorio Magno, Homiliae XL in Evangelia, Homilia XXXIV, § 3 e § 13, PL 76, 1247.

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