LE DIDASCALIE – NECESSARI EMENDAMENTI PER RIQUALIFICARE L’AZIONE LITURGICA – terza parte

 

DON ENRICO FINOTTI

Necessari emendamenti per una riqualificazione dell’azione liturgica nella sua bellezza ed efficacia. 

7. L’Omelia

L’omelia è il grande, centrale, sufficiente, tradizionale e, possibilmente unico, commento nella celebrazione liturgica. E’ in essa e mediante essa che i Padri facevano la mistagogia ai riti, celebrati con grande dignità e rispetto: questa dimensione mistagogica deve essere oggi ricuperata. Ma la mistagogia implica che i riti e le preci precedano la loro spiegazione e si impongano da soli all’attenzione del credente. Dopo la loro attuazione vi è il graduale commento esplicativo nell’omelia. E’ esattamente l’opposto di ciò che avviene con l’uso attuale dei commenti nella celebrazione, che inverte il procedimento, riducendo il rito ad una conferenza o a una scuola catechistica: si rivela quindi necessario ritornare all’antico costume dei Padri, restituendo sacralità e dignità ai riti e impostando l’intervento omiletico del celebrante al modo dell’antica mistagogia.

L’omelia, con la sua posizione intermedia tra la liturgia della Parola e quella sacramentale, è la più idonea, da un lato a rispettare la piena efficacia della Parola nell’Assemblea, senza condizionamenti soggettivi, parziali e riduttivi, dall’altro a condurre i fedeli alla liturgia sacramentale, nella quale la Parola proclamata trova attuazione misterica.

Essa, pronunziata al termine della liturgia della Parola, consente che la Parola di Dio produca i suoi effetti nell’assemblea nel semplice atto di essere proclamata e udita nella sua completezza e semplicità. L’omelia, quindi, diventa un completamento dell’opera già effettuata dalla Parola annunziata: l’omelia insomma è ancella della Parola di Dio e non schermo. Il commento che invece precede e accompagna continuamente la Parola, oltre che appesantire il rito, si impone come un condizionamento e una canalizzazione della Parola, che in tal senso viene pilotata su accentuazioni parziali dovute a sensibilità individuali.

Il momento omiletico poi, volgendosi al versante rituale che segue la liturgia della Parola, la liturgia sacramentale, offre un commento globale e sintetico sul senso e sulle coordinate essenziali dell’agire rituale della Chiesa nei riti che seguiranno, introducendo i fedeli nel significato di ciò che essi stanno per celebrare. Il commento puntuale di ogni espressione del rito, al contrario, arrestando il ritmo celebrativo, devitalizza la potenza espressiva e il genio dei riti stessi. I riti sacri celebrati nella loro integrità e dignità, anche se non immediatamente compresi e misteriosi a prima vista, pongono nei fedeli più interrogativi  e suscitano maggior interesse e ammirazione rispetto a riti antecedentemente già spiegati e talvolta quasi vivisezionati. La potenza espressiva del rito, anche se misterioso ed elevato, è più eloquente della sua spiegazione. Per questo l’omelia offre la traiettoria fondamentale del rito, senza pretese di esaustività e poi cede il passo alla ritualità, rispettando integralmente il suo sviluppo e il suo linguaggio.

8. Una proposta di soluzione

Alla luce dell’esperienza, trascorsi ormai quattro decenni dall’attuazione della riforma liturgica, si rivela necessaria una seria verifica per conoscere le cause di molteplici effetti indesiderati ed elevare la qualità dell’azione liturgica. Emendamenti urgenti potrebbero riguardare proprio il senso e l’uso delle didascalie. Occorre uscire dal costume così invasivo dell’eccesso delle parole a scapito della adorazione contemplativa e del linguaggio nobile e sacro della Liturgia. Alcune rubriche, ancor vigenti nei libri liturgici, potrebbero essere ripensate o meglio rifinite alla luce di conseguenze emerse nella prassi celebrativa. Alcuni suggerimenti potrebbero delineare una via di risanamento:

  La figura del commentatore potrebbe essere del tutto superata, in quanto i riti, se ben eseguiti dai ministri competenti, devono ‘parlare’ con eloquenza propria. Per questo occorre una scuola adeguata per ben celebrare.

a. Le monizioni a formulazione libera, previste dall’Ordo Missae, dovrebbero essere ridotte a due: quella iniziale e finale. L’intervento che precede la liturgia della Parola e quello prima del prefazio sembrano disturbare l’attenzione orante dei fedeli e appesantire il ritmo celebrativo. Tuttavia anche le monizioni iniziale e finale possono essere ritenute opportune solo a determinate condizioni:   

– siano brevi: il rischio è che diventino una piccola omelia la cui durata non regge nell’equilibrio dei riti d’inizio e di congedo;

– siano occasionali: costituiscono un’opportunità, non una necessità, per non diventare formali, ripetitive e insipide.

b. Le monizioni a testo fisso, di struttura brevissima, ma con possibilità di riformulazione, diventano talvolta discorsi. Sarebbe opportuno, quindi, che fossero proposte secondo la lettera del Messale, senza libertà di formulazione, ma con possibilità di scelta tra alcune opzioni stabilite. Soltanto così si salva la loro natura, brevità e pertinenza.

c.  Le didascalie previste in riti specifici, come la Veglia pasquale ed altre celebrazioni speciali, devono essere proposte con un testo prestabilito nel Messale, senza possibilità di formulazioni similari. L’esperienza, infatti, mostra che la libertà creativa in questi punti porta ad interventi prolissi, eccessivi, quasi un’omelia distribuita negli snodi rituali di questi solenni riti.

d.  Il Martirologio Romano  offre splendidi Elogi, sia per le solennità e feste del Signore, come per le memorie dei Santi. Questi potrebbero essere adoperati proprio come monizione iniziale. La loro sobrietà, densità teologica e arte espressiva li rendono idonei come modelli di alto profilo e di sicuro riferimento.

9. Regole per evitare la ‘sermonite’

a.  Dar fiducia al rito nel suo complesso e nel ventaglio variopinto dei suoi molteplici linguaggi: parola, gesto, canto, simbolo, silenzio, ecc.

b.  Confidare nella Grazia divina, che compenetra i riti stabiliti dalla Chiesa e mediante essi si comunica ai fedeli per la loro santificazione: per ritus et preces (SC 48).

c.  Celebrare con competenza e proprietà ogni modulo rituale, secondo la natura e lo scopo di ciascuno, per dare ai diversi codici linguistici la loro massima efficacia, senza fastidiose infarciture e ulteriori spiegazioni.

d.  Accettare di non capire tutto e subito e di non voler far capire tutto e subito ai fedeli con estenuanti interventi verbali.

e.  Lasciarsi avvolgere con semplicità, fiducia e gratitudine dalla maestà del mistero di Dio, che è ineffabile e immenso e va sempre al di là di ogni nostra comprensione e spiegazione.

f.  Accettare con coraggio la sfida e il peso del silenzio, superando l’horror vacui (la paura del vuoto), che tutto vorrebbe riempire.

g.  Celebrare con profonda devozione per entrare nel mistero nascosto sotto il velo di ogni espressione rituale e comunicarlo in tal modo ai fedeli con la potenza mistica della preghiera.

h.  Avere il senso vivo della presenza di Dio come il grande Sacerdote del mistero celebrato e aver viva coscienza che il ministro debba essere un servo umile e laterale dell’azione eminente e primaria di Dio.

i.  Nutrire rispetto e soggezione del rito stabilito dalla Chiesa per accostarsi ad esso ed agire in esso con quella necessaria attenzione e venerazione che allontana ogni tentazione di abuso e profanazione di ciò che è sacro.

l.  Non ridurre ogni espressione di preghiera alla sola liturgia, ma saper integrare adeguatamente la vita cultuale dei fedeli con i vari pii esercizi del popolo cristiano, che offrono una maggior libertà espressiva e popolare.

In conclusione

occorre curare l’arte del celebrare da parte di tutti, secondo la natura dei vari elementi rituali e la competenza propria di ciascun ministro. Allora si potrà superare con serenità l’attuale epoca dei commenti.

In realtà i commenti e le prove dei canti furono opportuni all’inizio e durante lo sviluppo della riforma liturgica. Oggi dovrebbero essere sempre più rari ed eccezionali.

 

 

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