TESTIMONI O MAESTRI?

A cura della Redazione 

27 aprile 2018

Per decenni nel post-concilio si andava dicendo che non si doveva più fare il catechismo, ma fare l’esperienza dell’incontro col Signore. L’insegnamento della dottrina in questo modo fu abbandonato e sostituito con la comunicazione delle ‘nostre esperienze’ e della ‘testimonianza’ di persone ‘credibili’. Anche nelle celebrazioni le testimonianze e l’ omelia-raggio avevano grande considerazione. Che ne dite?

(Un catechista)

 Possiamo ricordare alcuni slogan che rivelano questa mentalità a carattere antidottrinale ed esistenziale: Chiesa dell’incontro o Chiesa dell’annunzio? Testimoni o maestri? Ogni slogan contiene una verità che si coglie nella misura che si supera la contrapposizione aut-aut in favore della composizione et-et. Si intende che i due termini – incontro e annunzio, testimone e maestro – non si escludono reciprocamente, ma si esigono e si completano. Infatti, non si può udire la parola senza incontrare colui che la proclama, né si accoglie veramente chi è inviato senza ascoltare il messaggio che annunzia. La fede, dunque, nasce insieme dall’incontro con chi annunzia e dal messaggio che egli trasmette, così come nell’incontro personale col Signore si accoglieva la sua parola. La logicità di questa considerazione purtroppo è stata travolta dall’estremismo ideologico di interpretazioni parziali che hanno condotto non alla composizione degli elementi, ma alla loro opposizione fino alla reciproca esclusione. In tal modo l’incontro fu ridotto ad un rapporto del tutto soggettivo e personalistico col ‘testimone’ al quale fu tolta ogni possibilità di annunzio e ogni ruolo di insegnamento.

Con questa separazione, però, i contenuti della fede vennero oscurati, mentre la catechesi e la stessa liturgia furono ridotte ad una ridda di testimonianze di varie persone chiamate a portare la loro esperienza e i presenti venivano sollecitati a ‘raccontare la propria storia’, o comunque comunicare la loro ‘esperienza spirituale’. Perciò il catechismo, inteso ormai come freddo insegnamento di una dottrina, doveva essere abbandonato in nome di una più calda e credibile ‘esperienza di fede’, alimentata da testimonianze di persone ‘vive’.

Nessuno dubita del valore della testimonianza di un credente e della grazia di poter incontrare cristiani coerenti e convinti, testimoni autentici della fede che professano, ma ciò non toglie la necessità di una adeguata formazione dottrinale, completa e organica. Si tratta di quel catechismo di base che la Chiesa ha sempre impartito ai catecumeni o ai fanciulli nell’Iniziazione cristiana. Questo minimum di annunzio non è mai mancato nella vita della Chiesa a cominciare dal giorno di Pentecoste fino ad oggi. Per quanto si insista sull’incontro personale e sulla testimonianza di vita non si potrà mai fare a meno di confrontarsi sui contenuti della fede e di ricevere da maestri qualificati e accreditati la retta interpretazione della parola rivelata. Senza il contenuto oggettivo della dottrina cristiana e senza l’interpretazione autentica ricevuta dal magistero della Chiesa ogni incontro personale e ogni testimonianza per quanto ‘credibile’ possono essere inficiati dal soggettivismo effimero, a meno che non si dimostri il radicamento oggettivo nella dottrina di Cristo professata dalla Chiesa. Come si vede il rapporto con i contenuti dottrinali non può mai venir meno in quanto intrinseci alla stessa parola di Dio che afferma: «Sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna» (1 Gv 5, 20). Il confronto con la dottrina e l’adesione piena alla retta dottrina è necessario per mantenere quella fede che sola piace a Dio e ci ottiene l’eterna salvezza: «Chi va oltre e non si attiene alla dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo; poiché chi lo saluta partecipa alle sue opere perverse» (2 Gv. 9-11).

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