Il mistero lo si incontra, ci coinvolge e ci salva, non principalmente in una catechesi liturgica, ma nella reale celebrazione della Liturgia
Una bella spiegazione sul Triduo pasquale è soltanto un primo passo, indispensabile, ma insufficiente. E’ necessario che dalla grammatica si passi alla pratica, ossia ad una celebrazione del Triduo, coerente con i principi che lo ispirano. Il mistero, infatti, lo si incontra, ci coinvolge e ci salva, non principalmente in una catechesi liturgica, ma nella reale celebrazione della Liturgia. In essa si rende presente il Risorto e agisce il suo Santo Spirito e la nostra vita viene misticamente elevata alle realtà soprannaturali. Ecco allora quattro regole fondamentali, che assicurano una celebrazione corretta e degna del Triduo pasquale.
1. La cronologia. La coerenza con le medesime “Ore” nelle quali il Signore compì il mistero della nostra redenzione garantisce la sussistenza stessa del Triduo pasquale. Infatti, quando venne a mancare la fedeltà ai tempi reali in cui si compirono gli atti della nostra salvezza, si perse la nozione stessa di Triduo pasquale e venne meno l’equilibrio delle sue parti, il senso e la comprensione di tutto il suo ricco simbolismo. La Chiesa celebra quindi i momenti liturgici più densi del Triduo pasquale in consonanza con tre grandi “Ore”:
* l’ora della cena pasquale (giovedì santo sera)
* l’ora della morte in croce (venerdì santo pomeriggio)
* la notte della risurrezione (notte di Pasqua).
Questi tre momenti cronologici segnano il tempo delle tre celebrazioni maggiori, che costituiscono l’ossatura del Triduo pasquale e la sua più alta manifestazione con la più larga partecipazione dei fedeli. In particolare si deve purtroppo osservare come la Veglia pasquale non riesca ancora a decollare come veglia veramente notturna, essendo celebrata prevalentemente nelle ore serali del Sabato santo.
2. La drammatizzazione. I fatti evangelici proclamati nei giorni della ‘grande e santa settimana’ sono celebrati con riti e simboli supplementari: la processione delle palme, la lavanda dei piedi, la proclamazione del ‘Passio’ con i tre lettori e il coro, l’ostensione e il bacio alla S. Croce, il lucernale con l’ingresso del Cero e l’acclamazione ‘lumen Christi’, ecc.. Questi riti sono elementi tipici nella struttura stessa delle varie azioni liturgiche del Triduo e della Settimana Santa. Decurtarli o minimizzarli significherebbe svilire l’insieme organico della liturgia pasquale, che perderebbe la sua identità e diventerebbe una celebrazione ordinaria. Ma per realizzare con dignità, sacralità e proprietà questi riti, così complessi, è necessario prepararli. Occorre perciò superare il sospetto invalso verso le ‘prove’ preparatorie alla liturgia. Senza di esse tutto scade, tutto è incerto e sconnesso ed è compromessa ogni efficacia mistagogica, che dai segni visibili introduce al mistero invisibile. E’ necessario allora che le tre ‘scholae’ – gli accoliti, i lettori e i cantori – che formano l’organico della Liturgia solenne, collaborino col sacerdote nella preparazione previa e sinfonica di ogni specifico rito del Triduo.
3. L’unicità. I riti del Triduo sono unici, e non vanno ripetuti. Infatti, in essi si manifesta l’unità del popolo di Dio, che nella Pasqua annuale dovrebbe trovare la sua espressione più piena. Quell’unicità propria dell’Eucarisitia domenicale, – regola assoluta nell’antichità cristiana – la Chiesa la vuole conservare almeno nella celebrazione dei riti pasquali. Del resto ripetere riti così strutturati significa ridurli e privarli della loro natura solenne. Infatti si richiede un numero superiore di ministri e un servizio più qualificato nel canto. Cosa che non è possibile realizzare in una indebita moltiplicazione di essi. Occorre forse cambiare un’idea troppo individualista di pastorale, per cui i singoli e i gruppi debbano essere assecondati in ogni richiesta. Accettare umilmente l’eventuale impossibilità di partecipare porta maggior beneficio alla Chiesa che urgere un servizio che finirebbe per moltiplicare i grandi riti della Chiesa. Salvando l’unità del popolo di Dio si dà maggior gloria a Dio e coloro che a malincuore non possono convenire nell’assemblea hanno la possibilità di ricevere ‘in voto’ la medesima grazia di quelli che vi partecipano. Inoltre si ha modo di raggiungere gli assenti offrendo comunque gli aiuti spirituali, portando loro in casa sia il SS. Sacramento, come altri ‘segni sacri’ (le ceneri, l’ulivo, l’acqua, il cero, ecc.). In tal modo essi sono collegati all’assemblea liturgica e in essa concorrono attivamente con una partecipazione spirituale.
4. La coralità. E’ collegata con l’unicità. Dal fatto che i riti non si devono ripetere per comodità o a favore delle varie realtà ecclesiali, ne consegue che tutti i gruppi religiosi e laicali, che vivono in una parrocchia, si dovrebbero unire insieme per la comune celebrazione dei solenni riti del Triduo. La comunità parrocchiale non deve essere frazionata, ma piuttosto riunita per l’unica celebrazione, nella quale tutti concorrono con la propria presenza attiva. La capacità di una celebrazione corale del Triduo pasquale dimostra la maturità teologica e pastorale di una comunità cristiana, che sembra ancora essere tanto lontana e difficile nella realizzazione concreta. Predomina purtroppo l’individualismo delle spiritualità e degli itinerari, che incrinano il senso di appartenenza all’unica Chiesa. E’ ovvio che per realizzare una celebrazione così intesa occorre accettare da parte di tutte le componenti ecclesiali la ‘forma’ liturgica stabilita dalla Chiesa, rinunciando di buon grado a forme rituali, canti e simboli di composizione privata e propri dei vari gruppi ecclesiali. Se non si arriva a celebrare insieme la Pasqua in una parrocchia, come è possibile prospettare l’unica data per la celebrazione della Pasqua insieme con tutte le confessioni cristiane?
Le quattro regole, ora descritte, indicano una soluzione adeguata per impostare il Triduo pasquale anche nelle Unità pastorali, dove più parrocchie condividono l’unico Parroco. I riti non saranno né dislocati in chiese diverse, né ripetuti nelle diverse comunità, ma sarà opportuno far riferimento a quella centralità celebrativa che era praticata nella pieve o parrocchia, quando essa era circondata, come una madre, da molteplici curazie. Allora ogni curato conveniva nella chiesa maggiore col parroco o pievano per ‘concelebrare’ i riti pasquali e ricevere da quella sede primaria l’acqua benedetta, che, scaturita dall’unico fonte, alimentava i diversi battisteri delle chiese filiali. Un tale costume di unità liturgica continua ad essere praticato nella Chiesa cattedrale dalla quale il crisma e gli oli santi, consacrato e benedetti dal Vescovo, rag- giungono ogni parrocchia della diocesi. Occorre riconoscere che con l’elevazione a parrocchia di ogni più piccola comunità, servita dal proprio sacerdote diventato parroco, diventa oggi difficile – ma non impossibile – un cammino a ritroso verso la chiesa matrice. Tuttavia la problematica incombe inesorabile per il numero sempre più ridotto di sacerdoti, che esige l’erezione delle Unità pastorali. In questa situazione si ritiene che risolvere l’organizzazione dei riti del Triduo pasquale col criterio particolaristico che vorrebbe assicurare ad ogni piccola comunità l’intero Triduo o parte di esso, incrini la natura, la qualità e la solennità dei riti pasquali stessi, che non realizzerebbero convenientemente il loro obiettivo teologico e pastorale. Sarebbe contraddittorio che, mentre per la domenica si invoca il principio ‘meno messe e più Messa’, ciò non valesse per il Triduo pasquale, ossia per quella espressione dell’unità che non ha rivali nell’intero Anno Liturgico.
Si comprende anche come una simile prospettiva consentirebbe una migliore partecipazione spirituale dei sacerdoti – cosa da non trascurare – e aprirebbe ad una visione più equilibrata e meno stressante di pastorale liturgica. Forse il ritmo contemplativo e sobrio della tradizione potrebbe ispirare una revisione del ritmo vorticoso e apparentemente efficiente del presente.
Diverso è il ruolo dell’Ufficio divino e dei pii esercizi, che offrirebbero in modo capillare quei momenti di spiritualità e di coesione, indispensabili per la vita di fede delle diverse comunità di un’Unita pastorale e che potrebbero essere animati da laici ben preparati.
don Enrico Finotti